Lirica
DON PASQUALE

Don Pasquale viticoltore

Don Pasquale viticoltore

Se è forse vero che il libretto di Don Pasquale non rappresenta uno dei vertici della letteratura operistica mondiale, è senz’altro indubbio che il senso di teatralità di cui l’opera è permeata, unito alla vibrante velocità dei tempi attraverso cui la vicenda si dipana, ne fanno ancora oggi un modello di raffinata comicità, velata soltanto qua e là da alcuni momenti di introspezione psicologica che danno spessore ai protagonisti senza frenare o appesantire l’azione.

Nella sostanza il nuovo allestimento proposto quest’anno dalla Fondazione Arena di Verona per la regia di Antonio Albanese sa cogliere tutte queste caratteristiche di fondo offrendo uno spettacolo leggero che, se da un lato non propone all’attenzione del pubblico personaggi particolarmente sfaccettati, certo ha il grande merito di non cadere mai nel facile macchiettismo. L’azione si sposta da Roma a Verona, don Pasquale è proprietario di una grande azienda vinicola e la giovane Norina è una stagionale, abbigliata come nei vecchi film neorealisti, assunta per la vendemmia in una delle sue vigne. Il sipario si apre sulla enorme, moderna, organizzatissima cantina del proprietario, asettica nel suo candore, ove egli, con l’ausilio di una serie di domestici vecchi e claudicanti, dispone sull’enorme scaffalatura di fondo le bottiglie vuote, rispettando un ordine quasi maniacale. Norina, invece, ci viene presentata mentre coglie i grappoli nel vigneto della Valpolicella ove lavora, vigneto che nell’ultimo atto si trasformerà in giardino, riempiendosi di fiori dai colori sgargianti, probabilmente anche grazie all’opera vivificatrice dell’amore. Candido e lineare nella sua classicità, dotato di scarso mobilio e con alcune nature morte alle pareti, è il salotto di don Pasquale ove un finto notaio, sbadato e pasticcione, redige l’atto di matrimonio, attorniato dalla solita attempata servitù che si aggira costantemente per ogni dove. I gesti di tutti i personaggi sono curati e calibrati con attenzione, anche se ci è parso musicalmente poco congeniale pensare nel terzo atto ad un ingresso di corsa del coro in platea perché l’esecuzione ne ha risentito in compattezza e qualità del suono.

Ricchissima di colori la lettura data alla partitura dalla direzione orchestrale di Omer Meir Wellber: il volume è talvolta piuttosto corposo, ma l’interpretazione è brillante, capace di sottolineare con arguzia i momenti più riflessivo-intimistici senza sbavature.

Estremamente disinvolta la Norina di Barbara Bargnesi che in questa recita ha sostituito la prevista Irina Lungu; calibratissima l’emissione, bella la voce, davvero notevoli le capacità attoriali con cui tratteggia perfettamente la figura di una ragazza volitiva, decisa ad arrivare fino in fondo, ma non priva di sentimenti e di pietà verso un vecchio umiliato fino all’estremo. Edgardo Rocha è un Ernesto spigliato, ma provvisto di grazia, dalla vocalità sonora e dall’acuto svettante. Simone Alaimo è perfetto nell’interpretare un don Pasquale dotato dell’astuzia tipica di chi ha vissuto molti anni e che per questo può permettersi di prendersi gioco degli altri: la linea di canto presenta qualche momento di flessione, ma la presenza scenica e il senso del teatro sopperiscono non poco a qualche mancanza. Mario Cassi è un occhialuto dottor Malatesta dal bel colore, spigliato nel fraseggio e dalla recitazione misurata. Con loro, nella parte del notaio Antonio Feltracco.

A fine recita applausi sentiti per tutti, senza distinzioni.

Visto il
al Filarmonico di Verona (VR)