Solitamente all'Opera di Roma giugno vedeva in scena l'ultimo spettacolo al Costanzi per poi lasciare il posto a Caracalla, opera e balletto. Quest'anno non è così per due motivi: il festival alle terme si amplia con eventi diversi per tipologia e pubblico, a luglio il Costanzi resta aperto per il Nabucco diretto da Muti (regia Scarpitta, allestimento Opera di Roma) esportato prima a Ravenna e poi a Salisburgo in forma di concerto.
Nel caldo improvviso della capitale Don Pasquale dovrebbe portare una ventata fresca e leggera, sulla scia dei precedenti Elisir e Barbiere sempre con la regia di Ruggero Cappuccio.
Sulle note della sinfonia scorrono immagini in bianco e nero (splendide fotografie di Davide Scognamiglio) di Palazzo Altemps: la vista da un balcone verso San Pietro, il cancello di ingresso, il cortile via via più ravvicinato a centrare l'arcata che introduce all'interno con la statua di Eracle sulla sinistra, un'ultima foto che diventa un acquerello di Carlo Savi e, alzato il velatino, una proiezione sulla scena bianca e vuota. Vuoto che domina tutto l'allestimento, con qualche attrezzo funzionale al racconto: sedie, tavoli, scalette. Le luci di Agostino Angelini tingono di colori accesi la scena, come se si fosse in un cartoon. I costumi di Carlo Poggioli vanno dal Settecento parruccoso per i domestici-mimi al primo Novecento per i protagonisti, riservando al coro un mix di divise di mestieri e ruoli d'opera: interessanti se la scelta fosse caduta sul recupero dai depositi del teatro, brutti e inspiegabili se creati ex novo.
Praticamente inesistente la regia di Ruggero Cappuccio, che si limita a indicare entrate e uscite, a suggerire gesti stereotipati e banalmente convenzionali, a riservare ai mimi azioni che scivolano nella macchietta. Ne deriva l'improvvisazione attoriale e, inevitabilmente la noia, nell'incomprensibilità delle scelte (che chiamarli simboli sarebbe troppo) come il pendolo enorme all'inizio e alla fine, le fotografie (splendide) di Roma in un contesto scenico poi neutro e volutamente artificiale, le teste che pendono dall'alto, la tovaglia con gli occhi stampati, lo sfondo all'uncinetto in sostituzione del giardino, la bambola nelle mani di Norina.
Bruno Campanella dirige con tempi serrati, il suono non è pulito e gli attacchi spesso imprecisi: soprattutto manca quella leggerezza che renderebbe frizzante la partitura, i cui colori sembrano stemperarsi (e dire che il Maestro ha sempre dimostrato di essere tra i migliori in assoluto nel repertorio).
Il cast giovane è dominato da Eleonora Buratto, una Norina brava anche dal punto di vista attoriale (evidentemente per doti proprie); la voce è importante e si piega alle agilità senza alcuna difficoltà con involi netti e piacevoli all'ascolto; se l'inizio è parso poco incisivo, il resto della prestazione convince pienamente e senza riserva alcuna anche per un fraseggio vario e sfumato. Joel Prieto è un pallido Ernesto, esile nella presenza scenica, debole nella prestazione vocale dove gli acuti sono sbiancati e raggiunti con sforzo; il tenore in generale dovrebbe credere di più nel ruolo visto che il materiale su cui lavorare non manca, come si è visto nell'aria di apertura del secondo atto cantata in modo appropriato. Nicola Alaimo nel ruolo eponimo è preciso ma poco in evidenza nonostante la voce giusta. Mario Cassi è un bravo dottor Malatesta a cominciare dall'aria d'entrata con la sua alta tessitura, è spigliato nel fraseggio e tenero nel suo affannarsi per la felicità dell'amico. Con loro il Notaro di Giorgio Gatti e il coro preparato da Roberto Gabbiani.
Molti i posti vuoti in sala, applausi di circostanza.
Il programma di sala registra, per la prima volta, Ignazio Marino come presidente del consiglio di amministrazione, essendo il nuovo sindaco della capitale.