L’umorismo disilluso di Don Pasquale, oltre che segnare un punto di rottura con l’elemento comico di origine settecentesca ormai rielaborato e venato di sentimentalismo romantico, segna anche il punto di arrivo del percorso umano del suo autore, di una vita segnata dalla malattia che pare coincidere anche con la fine definitiva di quel debito che la lirica continuava ad avere col passato rossiniano. Si tratta di un “dramma giocoso” nel quale c’è posto, oltre che per una comicità mai grottesca, per un lirismo sentimentale autentico, per la compassione nei confronti delle sorti del protagonista e per una lettura matura, quasi distaccata, delle vicende umane.
L’allestimento proposto in questi giorni al teatro alla Scala in occasione del consueto “Progetto Accademia”, con la regia di Jonathan Miller, le scene e i costumi di Isabella Bywater, è una produzione del teatro Comunale di Firenze dove è già stato presentato lo scorso anno (recensione presente nel sito). La mise en scène è di impianto sostanzialmente tradizionale, ma appare fin dal primo istante molto piacevole e curatissima in ogni dettaglio.
La vicenda è ambientata a fine Settecento in una enorme casa di bambole articolata su tre piani i cui sportelli vengono aperti al termine della sinfonia iniziale per poi socchiudersi nella penombra, sul finire dell’opera, nel momento stesso in cui la scena si sposta nel giardino. Al piano terra troviamo un ingresso, che si stiperà presto di pacchi rosa targati Gucci, Prada, Versace quando Norina/Sofronia si darà alle sue spese folli, e una cucina all’interno della quale si aggirano quasi costantemente i tre indolenti componenti fissi della servitù, caratterizzati da acconciature e copricapi improbabili. Il piano nobile è riservato ovviamente a don Pasquale, alla sua camera da letto e ad un soggiorno su una parete del quale troneggia il ritratto con tanto di gorgera della madre del protagonista, alla memoria della quale egli risulta molto devoto. La scala centrale che collega tutti gli ambienti porta poi all’ultimo piano ove albergano il nipote, che usufruisce di una camera da letto più spartana di quella dello zio e di uno spogliatoio, dove Norina pare vivere celata.
La regia è estremamente curata, brio e allegria sono assicurati, ma non vi sono eccessi e, soprattutto, non si cede mai al macchiettiamo eccessivo. L’abilità attoriale del cast aiuta a sottolineare i diversi caratteri dei personaggi e a ben evidenziare i momenti maggiormente lirici distinguendoli da quelli quasi esclusivamente comici.
Michele Pertusi è un don Pasquale efficace: la voce appare un po’ stanca, ma il timbro è bello e la tecnica ineccepibile. Nei panni di Norina una brillante Pretty Yende che, nonostante la dizione non perfetta, risulta ottimamente calata nel ruolo: la voce è squillante, di grande ampiezza e volume, l’emissione naturale, la presenza scenica sciolta. Celso Albelo impersona un Ernesto molto lirico, a tratti elegante, con qualche forzatura negli acuti che a tratti appaiono eccessivamente muscolari. Christian Senn nel ruolo di Malatesta si dimostra sostanzialmente corretto, anche se un po’ cauto e trattenuto. Con loro, nelle vesti del notaio, Mikheil Kiria. Buona la breve prestazione del coro dell’Accademia del Teatro alla Scala che si è mostrato abile e disinvolto nel rappresentare il caos causato nella casa dalla presenza della numerosa servitù assunta dalla nuova moglie del protagonista.
A dirigere un’orchestra dell’Accademia che lascia qualche perplessità, soprattutto per quanto riguarda l’intervento degli ottoni all’inizio del II atto, il maestro Enrique Mazzola, il quale si è mostrato comunque bravo a mantenere sempre la sintonia col palcoscenico e a permeare il tutto di una leggerezza non banale.
Buono il successo di pubblico.