Prosa
DONNA NON RIEDUCABILE

L'inanità della verità

L'inanità della verità

Sono passati già nove anni, da quando Anna Politkovskaja venne uccisa sotto i colpi di un sicario di cui è ben facile immaginare i mandanti, c'è solo l'imbarazzo della scelta. Nove anni e nessuna verità, anzi nemmeno la lontana idea, che possa venire alla luce qualche verità. Forse è anche per riflettere questo sforzo che non c'è, che l'atmosfera di Donna non rieducabile si affida subito come ad una grigia sospensione, con una musica tradizionale russa quasi sepolta in un ingenuo folklore, le immagini di uno squallido caseggiato popolare ceceno alle spalle, buste della spesa pesanti, e soprattutto una porta in mezzo al nulla.

La prima volta che sono andata in Cecenia, ho avuto l’impressione di entrare in un ripostiglio. Il ripostiglio del mondo”, e la regola fondamentale del ripostiglio, è "non esistere, come stanza autonoma": in questo buco oscuro si compenetra l'intero percorso ideologico di una giornalista più che scomoda; perché in quel buio qualcuno di nome Anna si è inoltrato, credendo che con la sua sola penna e stando sempre in prima linea bastasse far emergere i particolari di una cronaca di quotidiano orrore equamente distribuito fra le parti, per scuotere le coscienze. Il suo stile si trovava a metà fra il descrizionismo del “new journalism”, e la ricerca dell'“advocacy journalism”, ma la sintesi trovò più senso nel coraggio personale, piuttosto che in una risposta da parte dell'opinione pubblica o dei colleghi.

Anche Elena Arvigo, cappotto lungo e triste, sembra aggrappata alle rive del Terek come la terra martoriata che la ospita (si fa per dire, in un luogo in cui non è la morte il primo dei problemi, bensì la non-vita quotidiana); e di Anna, lei pare avere anzitutto lo sguardo, quello di chi racconta una tragedia consueta, ma senza nessuna speranza di essere ascoltata, compresa, e men che mai seguita. E' molto credibile, la sua Politkovskaja, sia per l'assenza della partecipazione attesa, sia per quei movimenti e quelle posizioni che assume spesso al di fuori del campo, anche di quello della luce, come per suggerire forse che una scena non basta, e spettatori che rispondano non ce ne sono, nemmeno se scossi da strattoni formali e scomodi.

Nello spazio comodo del NEST, coraggioso luogo di frontiera che affronta e capovolge la scomodità di chi si ostina a fare teatro con tanta convinzione nelle periferie, si susseguono i racconti dei momenti più drammatici, attraverso il racconto che Stefano Massini offre alla lettura: dalla crisi del teatro Dubrovka alla strage di Beslan nell'Ossezia del Nord, dalle parole di un militare diciannovenne russo che algebricamente riassume i suoi crimini quotidiani con disinvoltura ("tanto, mica sono uomini…"), al botta e risposta con gli ufficiali sui giornali ed all'avvelenamento, dalle ignoranze popolari uguali a tutte le latitudini ("Il KGB in fondo una volta funzionava" e soprattutto la Fiction terzomondista “La giusta guerra”, con la distorsione di regime più intollerabile della realtà), fino ad una corsa vorticosa per denunciare le 25.000 vittime, numero che è solo una tappa. E per tutto questo, sul palcoscenico la Arvigo non abbisogna d'altro che un solo elemento, quello stipite che basta per portare la croce, per pregare, per un trasloco, per una porta aperta sul nulla.

Prendere una posizione è una cosa intelligente”, le suggeriscono. Ma non ce ne sono, di cose intelligenti, in una guerra così (né forse in nessun’altra), non si può scegliere fra tipologie di criminali, perché sono troppo simili. E convincente perciò è anche l'accento sulla crudezza: lo spettacolo, al contrario di quanto poteva in certa misura essere lecito attendersi, non commuove mai, non concede spazio alcuno a un sentimento del genere e va bene così, perché in tal modo fa rifluire ogni cosa allo stile di Anna, il mero racconto che lei voleva dare, con quel senso di smarrimento se vogliamo anche colorato in qualche modo di senso femminile, di fronte all’enormità della percezione di tutta quella inanità del fare e del dire. Perchè "l'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede". Crudezza e rigore, anche in questo.

Visto il 05-11-2015
al Argot Studio di Roma (RM)