Rubini è affiancato da Luigi Lo Cascio. Una trasposizione piena di insidie, quella di un romanzo dalla struttura diaristico-epistolare con un tale contenuto, risolta tendendo la mano all’arte del cinema.
Dracula, celebre romanzo gotico di fine Ottocento di Bram Stoker, è riletto per il palcoscenico in una produzione firmata Nuovo Teatro e Fondazione Teatro della Toscana. Il testo è un adattamento di Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini, l’attore e regista barese cura la regia e interpreta sul palco il professor Van Helsing, l’antagonista del vampiro.
Rubini è affiancato da Luigi Lo Cascio (Jonathan Harker) e poi da Alice Bertini (Mina), Geno Diana (Dracula), Lorenzo Lavia (il folle Renfield) e Roberto Salemi (il dottor Seward). Una trasposizione piena di insidie, quella di un romanzo dalla struttura diaristico-epistolare con un tale contenuto, risolta tendendo la mano all’arte del cinema.
Alla caccia dell’uomo nero che è in noi
Lo spettacolo ha inizio con un incontro a effetto: Dracula è una presenza nera, si aggira già dai primi istanti tra le file della platea. Intanto Jonathan Harker è sul palco in preda al delirio: la scena evoca il suo ricovero nell’ospizio gestito da suore che lo accoglie dopo la fuga dal castello del Conte. La scenografia curata da Gregorio Botta è resa lugubre ed è spesso spazzata dal vento gelido della paura, quello che viaggia in carrozza nella “terra oltre la foresta” dove lo scrittore dublinese ambientò il suo romanzo.
Sul palco regna un letto-giaciglio che ospiterà Harker nei momenti bui del suo ritorno al mondo dei vivi; dopo e insieme a lui Mina, la sua giovane fidanzata in preda alle smanie dell’infezione causata dai baci-morsi dal vampiro; anche il folle-visionario Renfield (Lorenzo Lavia) famelico di insetti, che avverte l’avvicinarsi del suo padrone dal manicomio diretto dal dottor Seward (Roberto Salemi), allievo del professore Van Helsing, interpretato con intensità da Sergio Rubini.
Le scene si susseguono alternando narrazioni a flash back, inanellando le vicende che si svolgono come ritrovate in una vecchia bobina, con il ritmo di ciak cinematografici. Lo spettatore guarda, riconosce e decide da sé il grado di immersione nella storia da accordare. Lo spostamento in Inghilterra, a Whitby, è evocato dalla presenza di separé che diventano vagoni di un treno; la nave fantasma da cui sbarca il Conte nella forma di un feroce cane nero arriva invisibile, uno spettro, avvistata da una panchina sistemata in alto, a guardare e a custodire l’ignoto.
Nel finale scende la neve che ci si aspetta, a suggellare nel bianco la caccia all’uomo nero, la vittoria del bene contro il male. Ma quando la vita di Jonathan e Mina riprende il suo corso, e tutto pare dimenticato, da una porta non solo della mente che si apre all’improvviso il passato ritorna in una folata di vento gelido, che riporta in scena e fa volare fino in platea le pagine del romanzo.
Il fascino immortale di vampiri e vampiresse
Dracula (Geno Diana), in fedeltà al romanzo, rimane poco in scena, fa la sua apparizione e in più momenti si aggira in platea. Quando parla, o meglio ulula e tuona, lo fa in una lingua aspra, dai suoni slavi e fa sentire la potenza del male che lo muove, ha nelle corde una traccia del fascino di Lord Ruthven, il vampiro di John Polidori antesignano del più celebre Conte. Il castello dei Carpazi, con le sue tenebre — luogo dell’immaginazione che affascinò prima di Stoker anche Jules Verne — è evocato dalla lettura dei diari del giovane Jonathan, i cui capelli diventeranno presto bianchi per il terrore (in scena, grazie a una vistosa parrucca).
I ruoli femminili sono sintetizzati forse in sovrabbondanza in Mina (Alice Bertini) (non compaiono né Lucy né le tre vampiresse di una celebre scena ad alto tasso erotico descritta nel romanzo). Luigi Lo Cascio nei panni di Harker compie sempre sul filo dell’alta tensione il suo viaggio nella terra di Dracula e l’incontro con la parte nera di ognuno di noi che rappresenta. Forte, nello spettacolo, la presenza degli effetti tecnici (rumori e luci, l’utilizzo dei microfoni), che probabilmente agevolano l’immersione in un teatro di piccole dimensioni, nello stile Grand-Guignol.