Le parole di una canzone di Stefania Rotolo (“...con chi mi puo' dare l'amore, puo' farmi soffrire e farmi morire...”, Cocktail d'amore, 1979) aprono non a caso una scena che appare subito essenziale: la vasca da bagno mezza piena, tre sacchetti di plastica appesi e ripieni di sangue, una figura simile ad una improbabile infermiera instabile sui tacchi, con ancora più improbabili extensions rosse, e come in un cerchio che si chiude prima ancora di aprirsi, le prime parole pronunciate (“L'amore non mi parla più, ma tanto io non sento più niente”) scavano subito il solco, quello che rimarrà intatto fino alla fine, portato avanti e fino in fondo da una Licia Lanera molto brava a non perdere mai la sua presenza di lucida follia, di una insania che è difficile comprendere quanto sia generata dall'evento in sé, o piuttosto presente nell'animo della protagonista.
Alla Sala Ichòs abbiamo assistito ad una forte e riuscita rappresentazione di Eros e Thanatos, inestricabilmente avvinti ed accompagnati dal sottofondo di un crepitio continuo e da un uso originale del sonoro di Riccardo Spagnulo, che amplifica ogni goccia di sangue che cade al suolo fino a farla rimbombare come una percussione, lenta ed inesorabile, simbolica come molti altri aspetti prevalentemente psicanalitici della storia.
Lei si sofferma sulle memorie fisse, e fissate nella mente di una relazione, senza tralasciare date ed eventi, anche i più piccoli, come un album, ed è evidente subito che ci troviamo di fronte ad una “fine di amore” rantolante, scaturita dalla scelta di Lui di fare outing, dichiarando la propria omosessualità: in un solo istante, si disgrega l'intera impalcatura istituzionale della relazione, dall'idea di un futuro con figli, alla ancor più istituzionale TV al plasma nel salotto.
Ma questo non fa terminare, per Lei, la dipendenza assoluta da quell'amore ormai impossibile, e cresce l'incapacità di organizzare la sua mente per accettare e superare quella ferita magari solo narcisistica, o magari bloccata dal senso di colpa, tanto da proseguire la relazione che si fa morbosamente strada nell'accettazione di tutto, e nel paradosso (“Perfino in fatto di uomini avevamo gli stessi gusti...”).
Ninfa del suo stesso fallimento, e chiaramente vinta nella guerra fra la carne ed i neuroni, ben evidenziata anche dalla metafora con cui definisce sprezzantemente “intellettuali...” gli spettatori che non le danno da mangiare, alla fine del (suo) dramma interiore Lei lo uccide colpendolo alle spalle, come se alle spalle, e cioè senza guardarsi in faccia, colpisse se stessa, non potendo guardarsi né in faccia, né dentro.
Ed è anche una “procedura” faticosa, lunga e difficile, quella di ammazzarlo a mani nude e con arnesi da cucina, cruda, brutale, spietata, selvaggia e dettagliatamente ricordata in un racconto che colpisce anche per un altro simbolo, quello di un pervicace ed ossessivo assalto proprio al collo, tipico comportamento di una gran parte delle specie animali, che lo scelgono appunto per il colpo letale.
Dopo la sua morte, lui le appare come un cherubino, un Santo, e le sembra addirittura felice, tanto da farle tornare in mente tutti i momenti felici, e ancor più, l'amore che non hanno mai bevuto.
Alla fine Lei si rinchiude, finalmente, ma in una vasca, e piange. E si uccide. Troppo tardi.
In questo campo di battaglia, chi vince? Chi ha vinto? Forse, il problema è proprio questo, che ognuno purtroppo, in questa lotta chiamata amore, ritiene che debba esserci un vincitore.