Prosa
DURAMADRE

Duramadre di una perversa natura umana

Duramadre di una perversa natura umana

“C’era una madre, la grande madre”.

In una sala fumosa, di nebbia bianca e spettrale, ha inizio la favola nera che la compagnia barese Fibre Parallele porta in scena sino a domenica 3 aprile alla Galleria Toledo di Napoli.
Un’opera nata dalla penna di Riccardo Spagnulo, cresciuta drammaturgicamente dall’oggetto filosofico di una Natura matrigna che educa l’uomo alla sofferenza, all’orrore ed alla paura. Ma, così come si evince dagli appunti sulla scrittura scenica dello stesso autore, la Natura inscenata da questa vecchia, storta catarrosa e brutale (nel linguaggio così come nei gesti) essenza femminea non è tanto afferente alla più comune entità panteistica quanto alla più profonda indole umana.

Spagnulo determina in questi termini che la condizione umana, anche nelle sue più abbiette declinazioni, è frutto di un libero arbitrio. Ed è così che, in una scena surreale priva di riferimenti temporali e spaziali, i tre figli di questa “madre madrona”, nudi e bianchi come cadaveri mummificati, sono schiavi della propria natura. Una madre che li opprime e li prepara, cucendone gli abiti da indossare sul letto di morte, alla fine. Fine che giungerà inevitabilmente ma coglierà la Duramadre (e non la sua progenie) in uno dei suoi impeti di violenza. Resta così, libero di scegliere un altro mondo possibile, l’uomo che ha rifiutato la proria connaturata malvagità. In una scena satura di calda luce solare, vestito degli abiti cuciti dalla genitrice, che si rivelano incompiuti ed inadatti, si rivela una perfetta metafora dell’inadeguatezza di cui si veste quotidianamente chi asseconda la propria indole violenta e prevaricatrice.

Una scrittura che trova il suo compimento nel linguaggio della Duramadre, ben interpretata dalla stessa regista Licia Lanera, capace nell’alternare con sapienza ruvidi e spinosi accenti espressivi, cogliendo nei dialetti meridionali la forza viscerale del rapporto madre-figlio.

Al contempo la messa in scena, essenziale nella scenografia, adotta l’elemento simbolico quale matrice strutturale dell’intero impianto narrativo. Una scelta stilistica raffinata, vittima di troppo facili didascalismi espressivi ad esempio nell’adozione delle sonorità grevi dei Sigur Ròs per denotare introspezione o festose-carnevalesche di Vinicio Capossela per enfatizzare l’euforia.

Un’opera non pienamente matura che, anche grazie alla pregevole prova interpretativa di Mino Decataldo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Marialuisa Longo, Simone Scibilia, può assurgere a piccolo avamposto nello sterile campo delle nuove drammaturgie nostrane.

Visto il 31-03-2016
al Galleria Toledo di Napoli (NA)