Prosa
DURAMADRE

Ma il matriarcato è un'altra cosa.

Ma il matriarcato è un'altra cosa.

Con Duramadre Riccardo Spagnulo, ispirandosi alla natura matrigna leopardiana, allestisce uno spettacolo che ci racconta della Legge matriarcale mostrandone gli effetti sui figli e figlie che si ribellano senza poter evitare di riprodurre però la sopraffazione che hanno così appreso.

Questo racconto mitico ci viene narrato in una scena gessosa, di un bianco sporco, nella quale tre figure maschili vengono alla luce, dilacerando i bozzoli nei quali sembrano esser stati gestati.

I tre uomini, due dei quali non più giovani, nudi, completamente ricoperti di un pigmento tra il grigio e il bianco che colora ogni centimetro del loro corpo, genitali e cuoio capelluto compresi, tranne uno dei tre che sfoggia una folta capigliatura nera, sono i figli di una madre dura, possente, di nero vestita, dalla folta capigliatura rossastra, che li apostrofa con una lingua tra il dialetto e l'italiano (il latino
dichiarato nel programma di sala non lo abbiamo riconosciuto) e impone loro un decalogo di regole e divieti tra i quali quello di avvicinarsi a una piccola casa posta sul fondo della scena dalla quale emerge la mano
prigioniera di loro sorella.

Una donna la cui severità sembra più quella di una madre incapace di farsi obbedire dai figli che giocano con delle palle nere e bianche, di diverse dimensioni, che trovano in quella landa gessosa e isolata dalla quale la madre preconizza la loro impossibilità di fuga.

Una incapacità a farsi obbedire più in sintonia con le istanze pedagogiche di programmi televisivi come SOS Tata che adatta a rappresentare la gestione femminile del potere come reazione all'atavico patriarcato cui il matriarcato fu solo una risposta  di liberazione, anche se poi degenerò, come lo intende Bachofen che del matriarcato fu il primo teorizzatore.

Duramadre ci presenta una donna il cui femminile è relegato alla funzione riproduttrice, a quella di madre impossibilitata ad accudire i figli perchè intenta a cucire dei vestiti per coprirli che non riesce mai a completare. Un femminile che non prende il potere per autoemanciparsi dal giogo del maschio ma che, al contrario, sopravvive all'assenza del  maschio, del padre, alla quale si barcamena come può, portatrice più che di un vero potere di quella petulanza isterica cui un preciso cliché riduce il comportamento (di certo) femminile.

Un potere che la donna non sa gestire tanto da rimanere uccisa nello sforzo di impartire una punizione fisica ai tre figli che le hanno disubbidito non per rovesciarne il potere ma come i ragazzini disubbidiscono ai divieti dei genitori.

Vedere questi tre uomini nudi, adulti e avanti d'età, interpretare l'innocenza di tre figli appena nati, che non sanno difendersi dalle prevaricazioni di una donna isterica, offende sia la Storia, anche quella contemporanea, data la lista impressionate di femminicidi di cui il nostro Paese continua a macchiarsi, sia il Mito del quale in Duramadre non c'è riferimento alcuno.

Senza proporci riflessione alcuna sul matriarcato o sui rapporti di potere tra madri e figli, tra adulti e infanti, tra generazioni diverse,  il fragilissimo e pressoché inesistente nucleo antropologico di Duramadre si infrange sugli scogli di una rappresentazione curatissima e interessante alla quale funge da espediente per la sua realizzazione e messinscena.

Nel finale, che Spagnulo vuole di speranza, i tre figli, liberata la sorella imprigionata, morta ormai la madre, camminano verso la platea andando incontro al loro futuro, quasi in una rivisitazione del Quarto stato di Pelizza da Volpedo, dove però i vestiti un po' sporchi e popolani sono sostituiti da quelli borghesi cuciti dalla madre morta con un risultato più di conformismo che di speranza.

Più che Leopardi l'orizzonte morale di Duramadre ricorda quello di Verga che non credeva possibile per nessuno abbandonare la classe sociale nella quale si è nati.

Spagnulo cerca la speranza ricollegando idealmente il nostro futuro a quello che si prospettava all'Italia appena fatta della fine dell'800, un percorso storico, però, nel quale le donne non si sono liberate dal matriarcato ma hanno contenuto il patriarcato  conquistando la parità di diritti e dignità senza riuscirci però completamente.

Scomodare il matriarcato senza spendere due parole sul patriarcato si presenta, al di là delle vere intenzioni del testo, come un irricevibile atto di rimozione che non ci pare serva a capire il nostro presente o la nostra storia quanto a confermare una sottile vena di misogina che permea tutto il racconto.

 

Visto il 21-03-2013
al Palladium di Roma (RM)