Prosa
EDIPO RE. DA SOFOCLE A PASOLINI

Edipo deve oggi la sua fama a…

Edipo deve oggi la sua fama a…
Edipo deve oggi la sua fama al complesso freudiano che porta il suo nome. Niente a spartire col Re di Tebe della tragedia di Sofocle, l'Edipo freudiano è un'appropriazione indebita di un mito letterario, avulso dal suo contesto storico e antropologico e usato per proiettare sul bambino delle pulsioni adulte (ad uso e consumo del maschio). Freud pretende che ogni bambino provi l'atavico e innato istinto di congiungersi con sua madre e di sostituirsi a suo padre uccidendolo. Poco male se il mito viene usato per scopi altri se con questo famoso complesso Freud avesse davvero individuato l'arché dell'uomo del novecento. Ma di tutte le sciocchezze che Freud ha scritto e detto (o, meglio, la vulgata popolare cui il suo pensiero è stato ridotto) quella di Edipo è stata da tempo criticata e ridimensionata. Se da un punto di vista storico-antropologico ci hanno pensato Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, nel 1972, con un libro che ha fatto storia (Mito e tragedia nell'antica Grecia, in Italia pubblicato da Einaudi) nel quale la tragedia greca viene indagata come fenomeno sociale estetico e psicologico, a contraddire Freud dal versante psicologico ci ha pensato nel 1977 Tilde Giani Gallino con lo splendido Il complesso di Laio (sempre per i tipi di Einaudi) nel quale la psicologa dimostra come sia improbabile che un bambino nei primi anni di vita provi sentimenti così forti quali l'istinto patricida e una pulsione all'incesto, che appartengono più alla sfera degli adulti, per cui è più probabile che il padre ad avere paura del figlio (da qui il titolo del saggio) e a temere che possa prendere il suo posto accanto alla moglie... (come in realtà teme circa un 30% dei padri...). Insomma il posto che occupa Edipo nel nostro immaginario collettivo non ha niente a che fare con quello della tragedia attica del quinto secolo a. C. quando
l'avvento del diritto e delle istituzioni della vita politica mettono in causa, sul piano religioso e morale, gli antichi valori tradizionali: quegli stessi che la leggenda eroica esaltava, da cui la tragedia attinge i suoi temi e i suoi personaggi, non più per glorificarli, come faceva ancora la poesia lirica, ma per metterli in discussione pubblicamente, in nome del nuovo ideale civico, davanti a quella specie di assemblea o di tribunale popolari costituiti da un teatro greco1.
E' difficile per noi, oggi, capire il senso del mito di Edipo, rivisto e corretto da Sofocle (Omero per esempio non ne racconta l'accecamento, ma solo il suicidio di Giocasta, dalla quale non ebbe alcun figlio, bensì dalla seconda moglie), che lo ha consegnato alla posterità in maniera definitiva , fuorviati come siamo dal concetto cristiano di "colpa", del tutto estraneo alla cultura greca. Il senso va cercato nell'affermazione di una razionalità (la vittoria di Edipo sulla Sfinge il suo enigma) e di una fiducia nelle facoltà dell'uomo (che si distacca per la prima volta dagli dei) che non possono ancora prescindere dal divino e quando l'uomo cede di aver optato per il bene poi scoprirà di aver invece scelto il male. La decisione di Edipo di allontanarsi da quelli che credeva i suoi genitori convinto di sottrarsi così alla profezia, è solo apparentemente un atto di ribellione, un tentativo di sottrazione al volere divino, rivelandosi, al contrario, una decisione in linea se non il "volere" degli dei sicuramente con la loro capacità predittiva. Ma non è dell'Edipo di Sofocle che Nuccio Ladogana ha allestito una sobria messinscena al teatro Ghione, bensì l'Edipo di Seneca, nella traduzione di Filippo Amoroso. Un testo portato a teatro molto meno del predecessore greco e quindi poco conosciuto (almeno al grande pubblico). Pensare che, in pieno umanesimo, era Seneca e non Sofocle (assieme agli altri tragici greci) a godere di massima fama. Il suo Oedipus (e le altre tragedie) sono state di ispirazione a tutto il teatro elisabettiano. Sarà solo in epoca romantica che Seneca vedrà capovolgere la sua fama di maggiore tragediografo (sicuramente immeritata rispetto a Sofocle) in quella (altrettanto immeritata) di scrittore retorico e niente affatto ispirato. L'Edipo di Seneca si distingue non solo in negativo rispetto il modello attico cui si rifà esplicitamente, ma anche in positivo per alcune sue caratteristiche precipue, vediamone alcune. Innanzi tutto la passione, quasi morbosa, di Seneca per il dettaglio grandguignolesco (in gran parte espunto nello spettacolo di Ladogana) che tanto influenzò il teatro elisabettiano e quello di Shakespeare (il fantasma di Amleto padre appartiene allo stesso gusto che, nell'Oedipus senechiano, fa comparire il fantasma di Laio). Seneca inndugia sul dettaglio macabro come quando fa descrivere al coro l'autoaccecamento di Edipo:
Mandò un gemito e poi con un fremito spaventoso si portò le mani al volto: ma si fanno fissi gli occhi torvi e cercano la mano che li strappa, si fanno incontro alla ferita. Affonda avidamente le mani nella cavità degli occhi, strappati fuori fin dalla radice li sradica del tutto: resta attaccata al vuoto la sua mano e, andando in profondità, lacera con le unghie la cavità fonda degli occhi ormai vuota, e incrudelisce vanamente e infuria più del dovuto, tanto grande è per lui il pericolo della luce! Leva il capo e percorrendo con le orbite ormai vuote le regioni del cielo, fa esperienza del buio della notte. Tutto ciò che ancora gli penzola dagli occhi male strappati, lo spezza e, vincitore, grida agli dèi tutti: ”Risparmiate, vi prego, la patria; ormai ho fatto io giustizia, mi sono procurato la giusta pena; ho trovato finalmente una tenebra degna delle mie nozze” Quell’orribile pioggia di sangue gli riga il volto e il capo, ferito, vomita sangue copioso dalle vene strappate2.
La considerazione critica che le sue tragedie siano infarcite di pura retorica è in parte immeritata perché Seneca (che probabilmente aveva scritto le sue tragedie non per la messa in scena ma per la lettura cfr. Ettore Paratore Storia del teatro Latino Vallardi, Milano 1957 pp. 243-248) dimostra una dotta conoscenza della mitologia, della geografia, delle pratiche magiche , (notevolissima la descrizione del vaticinio di Tiresia, piena di altrettanti dettagli macabri, anch'essa espunta da Ladogana) e dell'anatomia umana. Nel confronto con Sofocle è chiara una diversa struttura drammatica della tragedia (Seneca anticipa per esempio ai versi di apertura l'allontanamento di Edipo da Corinto per sottrarsi alla profezia dell'oracolo, bruciando così uno dei tanti colpi di scena della versione di Sofocle) nella quale non manca un'azione, solo che essa ha luogo essenzialmente nella sfera dello sviluppo psichico3. E' chiaro il motivo di questa scelta: per Seneca il personaggio di Edipo è un'occasione per scrivere una precettistica del buon sovrano contro i comportamenti del Tiranno (quei magnifici scarni dialoghi tra Edipo e Creonte che appartengono più al ragionamento filosofico che allo sviluppo di un dramma teatrale ). Elegante e indovinata l'intuizione di Ladogana di descriverci Edipo come un Nerone ante-litteram cui Seneca aveva fatto da precettore (secondo i principi stoico-epicurei) prima e da consigliere una volta che Nerone divenne imperatore. E proprio nella diversa umanità di Edipo che risiede il maggiore interesse di Ladogana per il testo Senechiano come ha ben spiegato egli stesso nelle note di regia:
Inquieto sin dall’inizio, Edipo è l’uomo che porta in sé una piaga segreta. Per questo lo scatenarsi della peste ha suscitato in lui un’angoscia quasi insostenibile, inducendolo ad istituire, sia pure confusamente, un rapporto tra sé e quel misterioso contagio. «Un’epoca di angoscia», un’epoca in cui vivere richiedeva più coraggio di quel che l’uomo medio possedesse, in cui si temevano i malefici, e la superstizione dominava, e pullulavano astrologi e indovini, e il risentimento contro il mondo, per un effetto di introiezione, diveniva risentimento contro l’ego.Seneca avverte in anticipo questa atmosfera e, prima che sia manifesta e diffusa, ne esprime il turbamento. La chiave psicologica è dunque la più idonea per penetrare quella tragedia notturna dalla peste.
A differenza dell'Edipo greco quello di Seneca non si cura delle sorti di Tebe se non come segno della propria disgrazia e malasorte. La scena straziante di Sofocle, quando Edipo, accecatosi, raccomanda le figlie a Creonte e poi si dispera di doverle abbandonare, in Seneca sono assenti lasciando spazio solo al sovrano diffidente toccato da un destino ineluttabile. Questa è la chiave di lettura seguita da Ladogana che ha allestito una messa in scena interessante per la rielaborazione del testo senechiano, sul quale innesti brani di Sofocle (come nella descrizione dei motivi che indussero Edipo a rivolgersi all'oracolo e di conseguenza a fuggire da Corinto) o compie delle inversioni nell'ordine del testo: il famoso incipit Ormai, cacciata la notte, torna, esitante, il sole; da una nuvolaglia scura spunta, triste, il suo raggio e spandendo luce luttuosa col suo fuoco portatore di morte, guarderà da lontano le case devastate dalla peste ingorda con cui si apre la tragedia è posposto nello spettacolo a un terzo dall'inizio. Un Edipo minato nell'animo, che cerca di sostenersi con la determinazione di non lasciare nulla di oscuro, incarnato dalla magnifica interpretazione di Flavio Bucci che, nel suo classico declamare, mostra inedite sfumature in un registro che, adottato da qualcun altro, avrebbe potuto rischiare di apparire monotono, ma non per Bucci, che modula l'arte declamatoria con uno spettro sorprendente di diverse coloriture emotive: paura, ira, ironia, cupo presentimento, orrore, cui danno sostegno tutti i personaggi che lo circondano (ai quali Ladogana attribuisce molti dei dialoghi che nel testo originale sono monologhi di Edipo o quelli altrettanto lunghi del coro.) Modifiche discrete all'economia della tragedia atte a semplificare e snellire le rigidità (la retorica...) del testo latino. Lascia indifferente invece l'allestimento scenografico, la cui unica intuizione è quella di presentare i fasci littori e la vittoria alata, simboli della romanità imperiale, così come Edipo presenta le sembianze di Nerone (insegne altrimenti ingiustificate visto che la tragedia si svolge a Tebe) ma che per il resto inciampa in un allestimento scenico anonimo e che paga lo scotto di una caduta di stile per la cortesia che Ladogana fa al suo pubblico, al quale vuole regalare un momento di racconto per immagini (ahilui più televisivo che cinematografico), quando impiega la macchina del fumo per simulare il fumo denso del vaticinio di Tiresia (invece di lasciare al testo la potenza evocativa di una descrizione fin troppo dettagliata, che Ladogana, invece, riduce). Del tutto assenti sono anche le luci come strumento drammaturgico, alle quali Ladogana preferisce cinematograficamente la musica per sottolineare stati d'animo e colpi di scena con un risultato imbarazzante. Cortesie per il pubblico che però al pubblico fanno male, che in questo modo, invece di venire educato a un gusto più consono continua a essere tenuto in quello corrotto della piccola scatola casalinga. Ladogana si fa pavido e non osa addentrarsi per le tante soluzioni sceniche che anche la più canonica delle regie teatrali gli avrebbe permesso (magari mantenendo anche le parti macabre espunte senza una vera ragione) anche a costo di rischiare di perdere qualche spettatore proponendo un allestimento scenico meno ingessato, e più teatralmente dinamico. Il tributo a un testo teatrale (che Ladogana esegue egregiamente dal versante letterario) non può non passare anche per una ricerca di regia, con una proposta di allestimento scenico che posa dirsi tale, qualunque essa sia, altrimenti, tanto vale riportare la tragedia di Seneca alla sua vera natura si opera da leggere e non da mettere sulla scena. Roma, Teatro Ghione dal 27 Gennaio all'8 Febbraio 2009 1) Edipo senza complesso in Vernant e Vidal-Naquet Mito e tragedia dell'antica Grecia, Einaudi, 1976 Torino p. 67 2) Per la traduzione abbiano impiegato una liberamente disponibile in rete a cura di Maria di Blasio 3) Gerhard Muller citato in Eckhard Lefèvre L'Edipo di Seneca: problemi di drammaturgia greca e latina "Dioniso" 52, 1981, pp. 243-259 consultabile in rete)
Visto il
al Giacosa di Aosta (AO)