Uno spazio scuro delimitato da alte pareti laterali con due porte; al centro, su un lettino da psicanalista ricoperto da varie stoffe, un uomo vestito di anonimo nero e grigio parla a una figura seduta, voltata di spalle. Sogna, vaneggia, racconta del re di Tebe Edipo. È e non è Edipo, è e non è Tiresia, è e non è Giocasta. Come proiezioni della mente, sul fondo del palco e di lato, al di là delle pareti, compaiono gli altri personaggi (Creonte, il servo di Laio...) e il coro maschile, visioni confuse in un inconscio fluire dai contorni sfumati.
Franco Branciaroli seziona, indaga ogni singola parola e, allo stesso tempo, la lascia scorrere via. Come già in altri spettacoli, la sua voce richiama quella di Carmelo Bene e sorprende con rapidi cambi tonali all'interno di una stessa frase; se in un primo momento a ogni personaggio corrisponde (magistralmente) un timbro, le differenze si sovrappongono con il procedere della narrazione. La frenesia di Edipo, la postura rannicchiata di Tiresia, l'andamento scomposto di Giocasta (in busto, guêpière e rossi tacchi alti) si fondono perché il protagonista è, e non è, tutto questo; allo stesso modo la voce gutturale inizialmente attribuita all'indovino perde il proprio connotato specifico, così come quella femminile della moglie/madre. Il tutto diviene un denso grumo di caratteri, di corpi, di suoni racchiusi in un'unica persona: perché è in Edipo la genesi della colpa.
L'interpretazione del mattatore Branciaroli si mantiene distaccata, rifugge volutamente l'immedesimazione e chiede al pubblico di non farsi coinvolgere: nei momenti di potenziale maggior pathos, man mano che la tragedia volge all'epilogo, la recitazione si fa meno intensa, le parole fuggono in un effetto di straniamento (quasi brechtiano) che, prendendo le distanze da uno scontato sentimentalismo, indaga con estrema lucidità il dramma. Il risultato è di certo ottenuto: impossibile emozionarsi, quanto, piuttosto, restare ancora una volta colpiti dalla grandezza dell'opera e dalla maestria attoriale.
Tutto è chirurgicamente sezionato dalla luce che restringe sempre più il campo a zone di palco e oggetti (si veda il rosso fuoco di una delle scarpe di Giocasta), fino a incastonare in una stretta inquadratura la testa dell'ignoto ascoltatore, ovvero il protagonista stesso: in un'immagine che tanto ricorda il Beckett di Giorni Felici e Finale di Partita, egli rimane imprigionato nel proprio incubo, come pronto a ricominciare da capo in un controllato delirio senza possibilità di soluzione.
Contenuta la reazione del poco pubblico (scoraggiato dalla nota complessità del titolo e da un nome felicemente noto agli assidui e non ai più?), probabilmente inconsapevole della fine operazione teatrale a cui ha assistito.