Parma, teatro Due, “Edoardo I…

Parma, teatro Due, “Edoardo I…
Parma, teatro Due, “Edoardo II” IL MIO CUORE E’ UN’INCUDINE “Il mio cuore è un’incudine, su cui batte il martello del dolore, mi fa esplodere la testa, mi fa impazzire, perché ho perso Gaveston”. All’inizio il sipario è aperto, una bara è protesa verso la platea, la bara del padre di Edoardo che poi diverrà quella di Edoardo. Il re è nudo. Il suo corpo nudo e scalzo è concepito come totale azzeramento di ogni difesa, oltre ogni ruolo. Ciò gli fa sentire integralmente il dolore, la profonda sofferenza di chi si offre totalmente, di chi dice “io sono questo, ho avuto addosso un costume, ma io sono questo”. Fino in fondo prendere il proprio fardello e andare avanti, fino poi a dire “faccio il Re solo per farti felice, Gaveston”. È inesorabile lo scontro fra libertà individuale e responsabilità pubblica, fra status e persona. “Da tante belle speranze a un oceano di dolore”. Poi il sipario di chiude, una delle intuizioni più felici dello spettacolo: Edoardo e Gaveston, pienamente felici, appagati dalla loro passione realizzata, sono di qua, dall’altra parte il resto della corte. Gaveston sbircia da sotto il sipario, insieme ascoltano il chiacchiericcio della corte davanti al sipario chiuso e ne ridono, come ragazzini a cui non manca niente per essere felici, solo loro due nel mondo. “Basta inchini coi potenti”. La messa in scena è una cerimonia, un lunghissimo funerale per rielaborare (invano) il lutto per la perdita dell’amato, celebrato da officianti vestiti tutti uguali, in abito talare, senza distinzione tra religiosi e laici. Alla fine non ci saranno né vincitori né vinti ma solo morti, una conclusione lacerante, un urlo agghiacciante che ci condanna tutti per la nostra continua voglia (bisogno) di consolazione. Ma invero una fine non c’è, perché quella liturgia funebre è destinata a proseguire senza cesure di generazione in generazione. L’allestimento è minimale, totalmente privo di oggetti di scena (solo la bara), fondali neri, tutti sono vestiti con tonache nere e strane cuffie: non c’è differenza tra clero e corte, tra amici e nemici, non ci sono buoni e cattivi, nello scontro con la passione folle di Edoardo per Gaveston sono tutti uniformati. “Perché vuoi tenere a corte uno che nessuno ama? Perché lui mi ama come nessuno al mondo”. La confusione regna anche tra gli altri, Mortimer, amante della regina, a un certo momento viene da lei “eletto”, un vestito identico a quello della regina scende dall’alto su Mortimer, che da quel momento è vestito come la regina. I movimenti sono continui all’interno dello spazio scenico, nessuno esce mai dalla zona visibile, sono le splendide luci di Giorgio Cervesi Ripa a mettere a fuoco chi recita (luci azzeccate, come il suono vibrante di Franco Visioli). Alcune immagini sono di straordinaria forza visiva, di una bellezza che crea turbamento: Gaveston che assiste agli scontri tra il re e gli altri nobili (a causa sua) nascosto nella gabbia della sottogonna della regina, il rapporto tra Gaveston ed il di lui favorito Spencer, danza o forse lotta, un rapporto fisico che rimanda ad un altro di indicibile fascino. Spencer: “mi vesto che sembro un prete ma dentro mi piace fare quello che mi pare”, un mondo chiuso dove il peccato è accettato nell’intimità e pubblicamente condannato. Dopo la morte Gaveston non esce di scena, anzi il suo corpo è continuamente trascinato da Edoardo, come una marionetta. Uno dei momenti più alti dello spettacolo è un’immagine iconica: simile a una scultorea pietà, Edoardo è seduto con il corpo nudo di Gaveston in grembo, bianco contro nero, i valori a cui siamo abituati sono rovesciati, il nero è vita e il bianco è morte. Qui le parole pronunciate da Edoardo assumono la sferzante violenza verbale di un compianto arcaico, di una lamentazione funebre che ha la potenza del mito e la tragicità dell’umano. L’accusa è verso chi ha deciso e realizzato l’omicidio di Edoardo, per cui Lightborn è vestito da vescovo, in bianco, una grande croce dorata ricamata sulla schiena, cammina con le stampelle e si serve di una di esse per trafiggere Edoardo, di nuovo nudo, steso sulla bara del padre, “mi trattate come un cane in mezzo alla mia merda, … papà, aiutami tu…”. Significativamente lo stesso attore impersona Gaveston e Lightborn, poiché è la stessa passione per Gaveston ad uccidere Edoardo, e anche perché la Chiesa è mandante ed esecutrice dell’atroce delitto. I sicari si muovono come cani, strisciano sul palcoscenico, ringhiano con i loro musi neri, parlano in secchi di ferro e la voce ne esce alterata, tirano secchiate d’acqua al re per umiliarlo, ma al tempo stesso la loro intenzione di umiliazione si risolve anche in una sorta di rito di purificazione. Fino alla pioggia finale, una pioggia di acqua e di luce, una pioggia che redime e purifica Edoardo e Gaveston, il loro amore, non capito da nessun altro, tanto che tutti hanno gli ombrelli per non bagnarsi con quella pioggia. Nessuno capisce. “Le lacrime che mi scendono sono testimoni del mio dolore”. Ritornano alcuni segni del linguaggio di Latella, i corpi nudi, il recitare ansimando, col fiatone (una rabbia inespressa e repressa che, per contrario, esce imperiosa e vittoriosa), l’uso delle maschere carnevalesche, i sicari come cani, alcune cifre espressive sempre interessanti ed efficaci. Invece non mi ha convinto la traduzione di Letizia Russo, con un linguaggio troppo colloquiale, eccessivamente adeso al reale, “A me mi piace… che ce ne frega a noi… questo paese fa cacare… a te ti voglio bene… guarda che faccia che ci hai… we are the champions my friends”. Ho anche trovato troppe disuguaglianze nella compagnia. Straordinari Danilo Nigrelli e Marco Foschi nei ruoli di Edoardo e Gaveston, bravissimi entrambi, poi un salto verso il basso, recitazione scolastica e monocorde, dalla regina di Cinzia Spanò, al Warwick di Nicola Stravalaci, dal Mortimer di Rosario Tedesco, allo Spencer di Enrico Roccaforte, agli altri. Un colpaccio per il teatro Lauro Rossi di Macerata, che, insieme all’AMAT (associazione marchigiana per le attività teatrali), ha collaborato con il Teatro Stabile dell’Umbria alla produzione di questo splendido spettacolo, uno dei risultati più alti del talentuoso Antonio Latella. FRANCESCO RAPACCIONI Visto a Parma, teatro Due, il 12 febbraio 2005.