Opera prima di un giovane scrittore immigrato in Italia (Nicolai Lilin, pseudonimo di Nicolai Verjbitkii, Bender - Transnistria/Moldova 1980), 'Educazione siberiana' - pubblicata da Einaudi nel 2009 - ha conosciuto un successo incredibile: è stata venduta in 24 Paesi esteri e tradotta in 19 lingue. Un vero caso letterario. Nel 2013 il regista Gabriele Salvatores ne ha tratto un ottimo film.
L’Elfo Puccini ne propone (fino al 2 marzo) un adattamento realizzato dal regista Miale di Mauro, autore con lo stesso Lilin della rielaborazione per il teatro.
Impresa coraggiosa perché era legittimo chiedersi come nell’angusto spazio di un palcoscenico sarebbe stato reso quell’affresco su un’epoca e una popolazione che emergono potenti e inquietanti dall’opera di Lilin.
Operazione riuscita: lo spettacolo funziona perfettamente e non sono andati perduti significati e messaggi che lo scrittore aveva affidato alla penna.
L’adattamento è centrato sulle opposte reazioni dei due fratelli Boris e Yuri al ‘nuovo’ che irrompe dopo la caduta della dittatura comunista e il fallimento della politica di Gorbaciov travolta da un concetto di libertà senza principi e senza regole in cui “non c’è più altra luce che il denaro” come proclama Yuri - il cui riferimento non è più costituito dai criminali onesti della tradizione Urka, ma dalle mafie americane - che vorrebbe trasformare Fiume Basso (la periferia in cui è cresciuto e in cui vive la sua famiglia e la sua gente) in una Las Vegas della Transnistria.
Sono opposte le concezioni di vita di Yuri e di Boris.
Il primo identifica la fine della dittatura con quella di ogni regola, il secondo è legato alla tradizione (tanto da praticare l’arte del tatuaggio) ed è rispettoso degli insegnamenti del nonno (uno dei capi storici degli Urka). Pur macchiandosi di molti crimini, il nonno era rimasto entro i confini di una morale opinabile, ma con rigide regole: rispetto per tutte le creature viventi (esclusi i poliziotti, i funzionari del governo, i banchieri, gli usurai e tutti quelli che con il potere del denaro sfruttano gli altri), divieto di voler possedere troppo e osservanza del principio “la fame viene e scompare, ma la dignità, una volta persa, non torna mai più”.
Nella tradizione urka il tatuaggio era importante perché - come spiegato da nonno Kuzja - scrittura simbolica e traccia della storia di ogni individuo, ‘carta d’identificazione’ dell’appartenenza.
L’ottima regia di Miale di Mauro - senza cadute di tensione e caratterizzata da una secca scansione dei diversi momenti flash - si avvale di una scenografia a due livelli molto efficace, in cui è contrapposta la calma luminosità della casa con l’angolare straripante di icone sacre e di armi (per gli Urka sacre in quanto strumenti del volere divino) al grigio cupo dei pannelli che nel loro aprirsi e chiudersi sono flash sul mondo esterno, rendendo pienamente prima l’oppressione della dittatura poi la morte - innanzitutto morale - dovuta alla libertà intesa come potere, accumulo di denaro e liceità di ogni mezzo per ottenerli (compreso invadere le scuole di droga).
Educazione siberiana è la denuncia forte di una libertà che - divenuta ‘dittatura del sopruso’ - è riuscita là dove aveva fallito la dittatura comunista: scardinare le fondamenta morali della società.
D’altra parte le dinamiche denunciate non sono frutto di fantasia: è sufficiente leggere quanto avviene in molti Paesi dell’ex impero sovietico o chiedersi da dove provengono le improvvise ricchezze di molti frequentatori delle occidentali ‘centrali’ del lusso.
Ottimo tutto il cast: in tutti la recitazione è partecipata e intensa. Svetta Luigi Diberti (un nonno Kuzja che non fa rimpiangere il John Malkovich del film di Salvatores) affiancato dai convincenti Francesco Di Leva e Adriano Pantaleo (i due nipoti) e Elsa Bossi (la madre che impotente vede crollare con il suo mondo anche le sue speranze).
Meritata l’ovazione finale del pubblico che affollava la sala Shakespeare.