Ancona, teatro delle Muse, “Elegy for young lovers” di Hans Werner Henze
LA MONTAGNA INCANTATA E UN VUOTO INCOLMABILE
Un piano inclinato di tavole di legno di betulla, una pedana rettangolare, sette fusti di alberi spogli che salgono al cielo (le punte oltre la visibilità della platea), il profilo di una montagna dolomitica sullo sfondo, il disco del sole opaco e spento, che non riscalda più né l’ambiente né l’animo inaridito dell’uomo (“tutti vogliono estinguere il fuoco dell’amore”). Tutto sospeso nel nulla, in un vuoto incolmabile che neppure le parole di Hilda e gli egoismi dispotici del poeta riescono a disgelare. Sollevandosi, la pedana rettangolare porta con sé pochi mobili anni Trenta, una rossa poltrona di pelle l’unico tocco di colore. Dettagli nei costumi rivelano la collocazione montana della vicenda, le calzature pesanti, gli stivali, le calze di lana sopra i pantaloni del dottore, la giacca di lana cotta del poeta, la maglia di lana della segretaria. Invece la protagonista è vestita secondo una cifra cara a Pizzi, abito lungo bianco con velo nero (tipo chador) nel primo atto, poi abito lungo nero con velo bianco, una figura metatemporale e metaspaziale.
La vicenda ruota intorno a Hilda che ha perso l’amato sposo il giorno delle nozze, mai più tornato da un’escursione in montagna quarant’anni prima. Hilda è impazzita e dei suoi vaneggiamenti approfitta un losco poeta, Gregor Mittenhofer, che trascrive i deliri della donna e li pubblica come sua ispirazione. Intorno al poeta una corte dei miracoli che dipende da lui e di cui lui approfitta senza scrupoli: Elizabeth, ricca e innamorata di lui, che lo mantiene (facendogli trovare ogni tanto mazzette di soldi sparse ovunque) e gli fa da segretaria, il suo medico ed il di lui figlio, che il poeta considera un suo “figlioccio”, Carolina, sua attuale amante che si innamorerà del giovane Toni. A un certo punto della vicenda viene ritrovato il corpo del marito di Hilda e lei ritrova la ragione, per cui il poeta non ha più fonte di ispirazione. Ma anche Carolina sta affrancandosi dalla dipendenza emotiva di Gregor. Allora il poeta decide di inviare i due giovani amanti, Carolina e Toni, sulla montagna a cercare stelle alpine e non li avverte che sta per arrivare una terribile tormenta, con la muta complicità di Elizabeth. I due giovani amanti morranno così sulla montagna e questa vicenda costituisce l’argomento dell’Elegia per giovani amanti che il poeta legge alla fine davanti al re.
Ottimo il cast: su tutti Davide Damiani (il poeta) e Isolde Siebert (Hilda), ma bravi anche Roberto Abbondanza (il dottore), John Bellemer (Toni), Ruth Rusique (Elizabeth), Elizabeth Laurence (Carolina) e l’attore Matteo Carlomagno (Josef). Il Maestro Lothar Koenigs ha diretto in modo corretto la Filarmonica Marchigiana ridotta a ranghi cameristici. Ottime le luci di Vincenzo Raponi e significativo il lavoro totalizzante di Pizzi (regia, scene, costumi), che riesce ad evocare un ambiente asfittico e visionario, senza speranza, come nei dipinti di Munch e nei romanzi di Mann, a muovere i protagonisti come topi in gabbia, in uno strano spazio-terrazza delimitato da balaustre ma affacciato su un muro di luce opaca biancogrigia che a volte si illumina a mostrare la montagna. Nel dominante bianco ghiaccio il posto principale è occupato dal vuoto, un vuoto freddissimo, che congela tutto in un eterno presente profetizzato dalla visionaria Hilda.
Splendido il libretto di uno dei principali poeti di lingua inglese, Auden. L’unico dubbio è per la musica di Henze, una composizione di grande livello indubbiamente, di profondo respiro, a cui il canto si adatta perfettamente, ma una musica di poca presa emotiva, troppo intellettuale nella sua atonalità, soprattutto poco comunicativa per il pubblico che l’ha trovata poco comprensibile e dura nell’esecuzione dei tre atti senza intervallo, una oggettiva, reale difficoltà di rapporto tra ascoltatori e produzione novecentesca (Elegia è del 1961). Confesserò che anche io, a un certo punto, seguendo i deliri di Hilda (pure eseguiti in modo magistrale dalla Siebert), mi sono ritrovato a pensare “ridatemi Verdi, ridatemi le melodie”.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto ad Ancona, teatro delle Muse, l’11dicembre 2005