Venezia, teatro La Fenice, “Elektra” di Richard Strauss
LA FOLLIA DI ELEKTRA
Nella stessa settimana due Elektra in due dei principali teatri d'opera italiani: una con la regia di Bob Carsen e la direzione di Seiji Ozawa al Comunale di Firenze, una con la regia di Klaus Michael Grüber e la direzione di Eliahu Inbal alla Fenice di Venezia. Due Elektra che non possono essere più diverse una dall'altra. Addirittura opposte, a cominciare dal colore dominante nell'allestimento: nero la prima, bianco la seconda. Anche l'approccio registico è diverso. Ho già recensito su queste pagine lo spettacolo di Carsen; invece quello della Fenice è produzione del San Carlo di Napoli che ha vinto il premio Abbiati nel 2004.
Le scenografie sono d'artista; Anselm Kiefer ambienta la fosca vicenda in un relitto postindustriale, un palazzone a tre piani dai cui muri scalcinati spuntano ferri arrugginiti. Elektra vive un antro con balle di paglia accatastate, forse ricovero per animali. È l'essenza dell'antifemminilità, capelli stopposi e arruffati, misti a fili di paglia; sporca, un camicione informe a coprirla fino ai piedi nudi; si muove come una malata di mente, a scatti, ripetitivamente, si gratta. La corruzione, quella morale e familiare, pesa nell'aria, si sente la necessità di pulizia, dentro e fuori. Così le ancelle strofinano pareti e pavimento con acqua e spazzoloni, con foga, rumorosamente.
La regia di Grüber è rispettosa del libretto e dei significati dell'opera, ha felici intuizioni nel calcare la mano sulla follia e sulla “messa in disparte” della protagonista, fatta vivere come un animale. Crisotemide è una leggiadra ragazza dalle scarpe col tacco. Clitemnestra avanza faticosamente nell'ingombro di una lungo mantello rigido, come di gesso, il peso del passato, il peso delle scelte fatte (per amore?). Ombre più che figure reali quelle di Oreste ed Egisto in questa storia al femminile indagata attraverso animi sconvolti.
Bene ha fatto l'orchestra della Fenice nelle mani di Inbal che ha reso con mano morbida i momenti di abbandono, come il riconoscimento dei fratelli, invece con asprezza e punte durissime i tanti momenti forti della partitura; le percussioni sono nei palchi di proscenio, ma il suono è sempre equilibrato e contenuto ed esplode solo nel finale in sussulti.
Ottimo il cast. Gabriele Schnaut è una delle migliori interpreti oggi in questo ruolo, una Elektra che si muove come una belva in gabbia, tra ferinità e follia, ricordando il degrado, ambientale ed umano, di certi manicomi. La voce è potente ed usata con una gamma di colori che esprimono le vibranti passioni della figlia del re assetata di vendetta ma intrappolata in ossessioni e ripetizioni di movimenti e tic. Un personaggio di una tristezza con pochi eguali, che lascia gli spettatori desolati.
Mette Ejsing è una Clitemnestra ieratica, bloccata come una statua, che barcolla senza la protezione della sua “corazza” e tiranneggia le serve. Crisotemide è Elena Nebera, lirica e passionale, profondamente donna nell'aspetto, nel canto e nel suo essere all'opposto di questa Elektra, incarnazione dell'antifemminilità. Il timbro è molto diverso da quello della Schnaut, come la partitura richiede. Peter Edelmann, colpito da improvvisa indisposizione, canta il ruolo di Oreste con professionalità e rispetto per il pubblico. L'elegante ma pavido Egisto è Kurt Azesberger.
Teatro gremito, molti turisti, pubblico attento, ma troppi movimenti di persone in platea durante la recita.
Visto a Venezia, teatro La Fenice, il 2 marzo 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
La Fenice
di Venezia
(VE)