Il 6 ottobre 2009 per la prima volta Elisabetta II arriva sulla ribalta italiana. La sua ambasciata, la Regina non arriverà a presentarsi nella pièce dell’ultimo Thomas Bernhardt, è portata al Teatro Vittoria di Roma dal virtuoso della parola Roberto Herlitzka. Accompagnano quest’ultimo nella rappresentazione, realizzata sulla traduzione di Umberto Gandini, da Gianluigi Pizzetti, Jiulio Solinas, Marisol Gabbrielli, Alessandra Celi, Mariella Fenoglio, Antonio Sarasso, Simone Faucci.
Ciò che effettivamente accade sulla scena è veramente poca cosa: Herrenstein attende. Per la precisione questo ricco industriale austriaco attende il nipote ed i suoi invitati in occasione del passaggio della Regina Elisabetta II sulla via. La vera trama qui non è intessuta dalle azioni ma dalle parole dell’industriale che conducono l’attenzione dello spettatore. Solo in quest’ultimo luogo si sedimentano tutti i contenuti e le forme del genio di Thomas Bernhardt: un’ironia trasgressiva e dissacrante articola il discorrere di un vecchio inacidito dall’età avanzata, attraverso universi dominati da aspettative di morte, foschie,sporcizia e grigiore.
Tuttavia non è del tutto vero che proprio nulla accade. Un espediente teatrale recide di colpo e brutalmente il fiume di parole inquinato dell’espressionismo della sfilata degli invitati e conclude, come unico “accaduto” sorprendente l’esistenza dell’opera.
Su tutto questo agisce la regia di Teresa Pedroni a cui la drammaturgia non può che lasciare uno spazio esiguo. Qui, come spesso accade per le norme architettoniche, piccoli spazi permettono di esprimere al meglio le proprie capacità creative rivolgendole all’efficienza. La regista sceglie di intervenire sulla parola con le azioni. Il mezzo principale dell’articolarsi dei discorsi dello scorbutico industriale in un percorso disegnato sulla scena è il binomio maggiordomo-sedia a rotelle. Lo spostarsi, l’arrestarsi, l’accelerare il passo della marcia dei due sulla scena danno il ritmo al flusso unidirezionale della parola. Gli interventi significativi della figura del maggiordomo, d’altra parte, sono rilasciati al non verbale. Sottolineano i moti d’ira di Richard e le sue speranze - ciò accade due volte in tutto lo spettacolo - l’uso sapiente delle luci e della scenografia. In questo senso Luigi Ascione (luci) e Alessandro Chiti (scene) hanno buon gioco nel dare la parte di merito a colui che permette l’esistenza in scena di Herrenstein. In ultima istanza i costumi di Roberto Posse e Nathalie Von Teufenstein assieme alle musiche di Arturo Annecchino non posso che limitarsi ad enfatizzare e dare forza ai ruoli assegnati ai personaggi dal parlato.
In summa lo spettacolo, nel lavoro di regia che lo vuole presentare, risulta come una misura e un peso del testo drammaturgico sulla figura dell’interprete principale Roberto Herlitzka. Lungi dal dimostrarsi povero, credo che il lavoro di Teresa Pedroni mostri tutta la sua forza nell’enfatizzazione dei ruoli secondari a supporto dell’unico principe della scena. Posso registrare solo una leggera perdita di smalto nella parte finale della pièce: l’universo del protagonista, grigio e tetro, si squarcia (anche scenograficamente) con l’ingresso dei personaggi attesi che si alternano singolarmente sulla scena. Si interrompe il viaggio nel cinismo di un uomo e si aprono le porte alle relazioni sociali rappresentate, per inverso, come non-relazioni. Consegue inevitabilmente una variazione nel registro rappresentativo con una relativa perdita di attenzione da parte del pubblico, infine provato.
Ancora, il carattere “escatologico” del finale non assurge al suo compito “liberatorio” nella rappresentazione come, di contro, suggerisce la drammaturgia.
A cura di Manuel Cazzoli
Visto il
06-10-2009
al
Vittoria
di Roma
(RM)