Enrico IV (ma forse no) è prima di tutto un riuscitissimo travestimento comico del testo pirandelliano, portato in scena con coerenza e convinzione.
Come in Tosca e altre due di Franca Valeri, l'azione della commedia originale - che vede assecondata la follia di un uomo che, in seguito a una caduta da cavallo, crede di essere l'imperatore Enrico IV -, avviene fuori scena, la pièce di Tarasco svolgendosi nello spogliatoio dove i quattro attori che interpretano i giovin consiglieri di Enrico IV si ritirano quando non richiesti.
Di quel che accade altrove giungono nello spogliatoio solo l'eco, i commenti, i sospetti sulla effettiva pazzia di Enrico IV.
Rielaborando e integrando i dialoghi originali di Pirandello con del testo nuovo Tarasco ci introduce Lolo (Federico Le Pera), un giovane bello che sa di esserlo, Franco (Brenno Placido), reduce da una caduta per le scale in seguito a una alterco con Enrico IV e Momo (Tiziano Panici) talmente in parte da rimanere in abiti di scena anche quando gli altri, appena possono, se ne liberano.
Il nuovo arrivato, che dovrebbe interpretare Bertoldo, è un nero del Gabon (Sidy Diop) così il suo rammarico per aver studiato la parte sbagliata - Enrico IV di Francia (1500) e non di Germania (1000) - acquista qui un significato diverso lui che, a differenza degli altri, un contratto per quel lavoro non lo ha mai firmato…
Tarasco si diverte coi nomi (Canossa, quella di Gregorio VII in Emilia e Canosa in Puglia che ospita un centro d'accoglienza che Bertoldo conosce bene) e con i personaggi costringendoli a una corsa senza sosta - soprattutto Lolo che si veste e si spoglia (per la gioia del pubblico) continuamente - mentre dalla comicità per la situazione comincia lentamente a emergere la tragedia sotterranea di quattro attori che credono di aver trovato in questo ruolo ricorrente - "contenitore senza contenuto" - una fonte di guadagno che li metta al riparo da una precarietà esistenziale.
Tarasco invece di approfondire le caratteristiche dei personaggi così ripensati (Lolo, innamorato di se stesso e del proprio corpo, poteva far riflettere su certo narcisismo maschilista; la fragilità fisica di Francesco poteva mettere in discussione certi standard macisti, per tacere della disperata solitudine di Momo che si rispecchia in quella del migrante del Gabon) preferisce dare alla pièce un colpo di scena da thriller – anticipato delle foto di locandina – che, tutt'altro che sorprendere, tradisce la facilità con cui si è trovato un finale.
Non è l'unica facilità in cui il testo indulge: il gioco sulla preghiera di Bertoldo che, in quanto mussulmano, cerca la mecca e si prostra per la preghiera, è usato come occasione di comicità; le allusioni improvvise al sesso tra uomini (quando uno degli attori deve vestirsi da donna) servono solo a far dire ai personaggi che schifo svilendo l'omoerotismo a mero mezzo di scherno tra maschi etero invece di presentarlo come possibilità altrettanto rispettabile.
Manchevole anche la direzione degli attori (all'inizio Lolo e Franco strillano invece di interpretare), lasciati a se stessi, senza una vera guida da parte di Tarasco - che si distingue più come autore che come regista - in una messinscena altrimenti curata e interessante a cominciare dai costumi i cui cambi in scena, oggi vera e propria moda, sono drammaturgicamente giustificati dal fatto di stare nello spogliatoio dove gli attori si cambiano.
Notevole anche il lavoro sulle luci, tutte di scena (dai neon alla lampada al lampeggiante che richiama i quattro attori al loro dovere di comparse), compresa l'opalescenza dello schermo di uno smartphone, quando Bertoldo cerca la Mecca, in una stanza altrimenti buia.
Enrico IV (ma forse no) è dunque godibile scomodando Pirandello per imbastire un discorso apparentemente comico che intraprende una riflessione sulla nostra contemporaneità anche se non sa trarne tutte le possibili conseguenze.