L’attore e regista Carlo Cecchi si dimostra ancora una volta un grande interprete di Pirandello, allestendo nel centocinquantesimo anniversario della nascita del grande autore una “traduzione” di “Enrico IV dal sapore squisitamente attuale.
Tradurre nel tempo
Cecchi “traduce” il codice dell’Enrico IV di Pirandello perché risulti più facilmente digeribile per un’audience dell’epoca del post-moderno. La rivisitazione di Cecchi è una versione della pièce molto interessante: l’originale è infatti del tutto visibile, ma toccato da idee che illuminano il testo di una luce nuova. Il risultato è uno spettacolo carico del contenuto pirandelliano che viene come trasmesso sulla frequenza contemporanea.Lo scarto temporale tra l’epoca di Pirandello e la nostra è particolarmente messo a fuoco nel confronto tra due diversi stili di recitazione: quello delle guardie e quello di tutti gli altri personaggi. I primi sono gli ambasciatori di ciò che è stato insegnato negli ultimi anni nelle accademie teatrali italiane; gli altri tornano al modello attoriale dei primi decenni del Novecento.
Quanto Pirandello rimane?
È un’impresa ardua mettere in scena un autore così conosciuto senza essere accusati di aver “tradito” l’originale. Carlo Cecchi sceglie di proposito di attuare tagli e modifiche, di fatto dando vita a una personale rilettura dell’opera. Bisogna però constatare che tutto ciò viene realizzato nel rispetto della poetica pirandelliana; ad esempio nell’aggiunta di un piano metateatrale, idea mutuata da opere come Questa sera si recita a soggetto, o Sei personaggi in cerca d’autore.La libertà più grossa che il regista si prende sul testo originale è forse la spiegazione della pazzia del protagonista: un amore maniacale per il teatro sostituisce la soluzione del trauma cranico voluta da Pirandello; attore perché non c’è soluzione al male della vita vera: verità pirandelliana o autobiografica?