Lirica
EVGENIJ ONEGIN

Genova, teatro Carlo Felice, …

Genova, teatro Carlo Felice, …
Genova, teatro Carlo Felice, “Evgenij Onegin” di Pëtr Il'ič Čajkovskij IL MONDO IN UNA STANZA “Vi sono uomini, segnati da brutte esperienze d'amore, cui è precluso il sentimento. Sono tipi inariditi, che non conoscono la purezza d'animo e si beffano dell'altrui delicatezza, mentre inconsciamente l'invidiano. Avvelenati dalla mancanza d'amore, divengono accidiosi e ammorbano il mondo con la propria disillusione, facendo terra bruciata intorno al sentimento altrui”. Così Franco Pulcini nel programma di sala per introdurre la vicenda di un amore mancato tra una nobile ragazza e un ignobile giovane. Rispetto ai musicisti russi del suo tempo, che miravano a rompere con la tradizione occidentale e ad affermare la piena autonomia dell'opera russa, Čajkovskij segna una inversione di tendenza: la sua ammirazione per l'opera francese, italiana e tedesca si avverte nell'armonia e nell'orchestrazione, ma il pathos e la drammaticità affondano le radici in terra russa. Più che nelle innovazioni di linguaggio, i valori della partitura sono da cogliere nella capacità di tradurre in gesti immediatamente comunicativi le realtà psicologiche e gli stati emotivi, espressi in un linguaggio facilmente decodificabile. Su questa linea di chiarezza si muove Peter Stein, la cui ottima regia (ripresa da Georges Gagneré) evidenzia in modo semplice e narrativamente efficace gli snodi del libretto e l'evolversi delle situazioni sentimentali e psicologiche. Lo spazio scenico (di Ferdinand Wögerbauer) è delimitato da una cornice di legno leggermente strombata che convoglia l'attenzione dello spettatore nella scena, sfondata verso un cielo azzurro oltre i fasci di grano maturo. I diversi quadri hanno l'ambientazione che il plot richiede; particolarmente bella la camera di Tat'jana, essenziale e lineare, con due grandi finestroni: questo è il momento centrale, la scena si spalanca sull'infinito, i muri della chiusa cameretta diventano il cielo ed un giardino, il mondo in una stanza per effetto dell'amore. La regia esalta la narratività dell'opera: Tat'jana sente il bisogno di solitudine e chiude la porta e la finestra che la Njanja aveva lasciato aperte. Sente crescere in sé il tumulto di un sentimento improvviso, si immobilizza contro il muro come crocifissa. Lo sfogo viene con le parole, scrivere la lettera è come aprire una diga, un fiume-sentimento che sgorga spontaneo e inarrestabile, mentre lei è lunga sul tappeto sopra il parquet (inizia alla scrivania ma poi la superficie è troppo ristretta). Il sorgere del sole coglie Tat'jana spossata ma appagata perchè ha capito ed ha esternato. Sigilla la lettera e guarda fuori dalla finestra, l'immagine della giovane si fa in tre, riflesso sui vetri, ombra sulla parete: a questo punto la scenografia si apre e, dove c'era una parete, ora il cielo azzurro e i cespugli del giardino. Il mondo in una stanza, la forza dell'amore. Juanjo Mena ottiene qui dall'orchestra un suono di grande respiro, di profondo e romantico sentimento. E il terzo quadro è ancora più straziante. Sontuosi gli interni dei momenti di ballo; le due scene di festa sono ben differenziate per i mezzi spiegati: un grande salone prima, una teoria di ambienti separati da colonne poi. Efficacissima la scena del duello, quando dalla grande prospettiva della sala da ballo si passa a uno spazio frontale, quasi verticale (enfatizzato dalla scaletta), un declivio su cui scivola nella neve il corpo privo di vita di Lenksij; la drammaticità è esaltata dall'intimità della situazione, nonostante sia all'aperto. Abbacinante il bianco delle pareti della scena finale, scarnificata, come il cuore della protagonista. Da rilevare però la lunghezza dei cambi di scena tra i quadri, che hanno spazientito il pubblico e, soprattutto, hanno spezzato la tensione drammatica dell'opera. Perfetto il disegno luci di Jean Claude Asquiè. Di grande charme di costumi ottocenteschi di Anna Maria Heinreich. Il ruolo principale, nonostante il titolo, è Tat'jana, un'intensa Svetla Vassileva che in questi giorni riceve il premio Abbiati come miglior interprete. Il soprano riesce ad esprimere vocalmente tutto l'arco emotivo, dall'ingenuità (“mi piace sognare di essere chi sa dove, altrove”) all'innamoramente improvviso alla perfetta scena della lettera, dalla disillusione al dolore fino alla rassegnazione, dignitosissima anche nella sofferenza. I registri sono smaltati, le mezze voci piene di sentimento: il timbro è leggermente brunito, luminoso nell'acuto, armonico nel grave. La capacità interpretativa è superba: il contegno rende immediatamente l'idea del cambiamento durante la vicenda e la conseguente evoluzione del personaggio, evidente anche solo dal modo di atteggiare il corpo. Ha convinto di meno la Ol'ga di Marina Pardo, poco precisa da solista, scomposta nel quartetto iniziale; corretta invece la Larina di Tiziana Tramonti e materna la Njanja di Ambra Vespasiani. Sul versante maschile emerge poco l'Onegin di Fabio Maria Capitanucci: la voce è bella ma ha poco fascino, la recitazione impacciata ne fa un personaggio sfocato, distaccato, che non lascia segni. Riuscito il Lenski di Dmitry Korchak, voce salda e sicura, acuti svettanti e registro grave con belle sfumature espressive che ben dialoga con fagotto e basso tuba nella toccante aria che precede il duello. Askar Abdrazakov è un autorevole Gremin, Dario Giorgelè un baffuto capitano; con loro Manrico Signorini (Zareckij), Mario Bolognesi (Triquet) e Roberto Rovegno (Guillot). Juanjo Mena ha ben diretto l'Orchestra del Carlo Felice, archi morbidissimi, qualche sbavatura negli attacchi dei fiati, soprattutto le trombe. Grande è il respiro orchestrale durante tutto il primo atto; in particolare nella lunga scena della lettera la cura è estrema: l'oboe che dà il tema, flauto e clarino che rispondono sul frullo dell'arpa, il palpito degli archi. Nel complesso Mena, che rivela un buon affiatamento coi musicisti, è più incline a sottolineare i colori della malinconia e dello struggimento della partitura piuttosto che i contrasti e le asperità, ed è sempre capace di integrasi coi cantanti, sostenuti e valorizzati. Non particolarmente brillante nella vocalità il coro, impegnato in una complessa distribuzione e movimentazione delle masse. Poco precisi i danzatori nelle coreografie impostate su valzer di Lynne Hockney, un tema musicale ripetitivo che sottolinea la circolarità della vicenda. Diversi posti vuoti in platea, nessuno ha abbandonato il teatro negli intervalli, come si poteva temere stante la lunghezza della recita: spettatori affascinati dallo spettacolo, per cui nel finale tanti applausi (Onegin era andato in scena a Genova una sola volta nel 1971 per una sola recita). Visto a Genova, teatro Carlo Felice, il 23 maggio 2008 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Carlo Felice di Genova (GE)