Lirica
EVGENIJ ONEGIN

Milano, teatro alla Scala, “E…

Milano, teatro alla Scala, “E…
Milano, teatro alla Scala, “Evgenij Onegin” di Petr Il’ic Chajkovskij SIAMO NOI LA CAUSA PRIMA DELLA NOSTRA INFELICITA’ Chajkovskij legge e interpreta Evgenij Onegin (romanzo in versi composto da Pushkin cinquant’anni prima) con un mutato atteggiamento nei confronti della vita: non più la violenza della rivolta, ma la riflessione, lo scavo psicologico e intimistico, passando dal romanticismo eroico a quello autobiografico e crepuscolare. Onegin, che gioca un po’ a fare il sofisticato intellettuale, non comprende la generosità con cui l’ingenua Tatiana gli confessa l’amore in una lettera appassionata che è il cuore del poema e dell’opera. La respinge e, guidato dalla medesima noia, civetta con la sorella di Tatiana, fidanzata dell’amico poeta Lenskij, che uccide poi in duello. Nella vicenda si incontrano e si scontrano tre mondi: la Russia falsamente europea di Onegin, quella campagnola e autentica di Tatiana e quella sognante di Lenskij. E la frattura è insanabile, perché quando Onegin, maturato dall’esilio, ritrova Tatiana e implora il suo amore, lei, sposata a un altro, lo respinge, pur continuando ad amarlo. Felicità. Infelicità. La direzione dell’ottima orchestra scaligera è affidata al giovane Vladimir Jurowski che privilegia, attenendosi al dettato di Chajkovskij, un versione sommessa ed intima, minimalista, adatta alle scelte registiche. Infatti la splendida e innovativa regia di Graham Vick non lascia spazio ad eventi ed effetti teatrali inutili, ma privilegia cose ben più importanti e significative, come la ricchezza della poesia, la semplicità di un cuore innamorato e l’umanità della vicenda. Il minimalismo è solo apparente, al primo impatto con la scena (di Richard Hudson, come i costumi) dominata da vuoti invece che da pieni, solo apparente perché invece tutto è curatissimo in ogni particolare, come anche i movimenti perfetti di tutti, protagonisti, coristi, comparse e ballerini, ad ognuno dei quali è assegnato un ruolo preciso e marcato. Un esempio della genialità di Vick espressa da una gestualità non eclatante, in linea con il crepuscolarismo della musica e della vicenda, è questo: Tatiana è intenta a leggere un libro, Onegin la distrae soffiando sulle pagine e facendole perdere il segno. L’ambientazione è in una grande struttura di legno chiaro aperta su quello che potrebbe essere un orizzonte limitato da basse spighe di grano. Un velo bianco chiude il boccascena ma lascia intravedere due figure, poi si apre lentamente strusciando a terra, similmente a un altro velo bianco sullo sfondo che scivola via nell’opposta direzione. Le due figure sono due donne sedute a un tavolo. La luce è quella della buona stagione, ma la sensazione è di una luce crepuscolare, di una luce dell’anima. L’effetto è completato dai costumi sulle variazioni tonali di marrone e avorio. Intimità. La musica si appropria fin dall’inizio di temi popolari, armonizzati e ripuliti; nella danza dei contadini Olga prima freme dalla voglia di ballare, poi si unisce al gruppo saltellando in giro, mentre Tatiana è lunga a terra e legge un libro, la poetica bruciante del vivere delle parole scritte più che del vissuto. La musica diviene impalpabile e si spegne in un sussurro (“la mia colomba cammina ad occhi bassi”). Nella seconda scena l’aprirsi del velo mostra un interno, una lunga parete su cui si apre una sola finestra. La scena è stilizzata ma curata nei particolari, perfino un lumino è acceso davanti all’icona della Vergine. Tatiana inizia a scrivere la sua lettera a Onegin: l’oboe dominante, il frullo dell’arpa sui violini, un crescendo di note che è un crescendo di intensità amorosa, fino alla presenza delle trombe nel momento in cui la lettera è conclusa. Tatiana è troppo felice, incredula, si rovescia in testa un catino d’acqua. Dalla finestra seguiamo il lento scorrere delle ore, mentre Tatiana è al tavolo che scrive, dalla notte all’alba al giorno con perfetto realismo (le luci perfette sono di Matthew Richardson). Poi il momento della verità, la consegna della lettera a Onegin. Registicamente e scenograficamente è la scena più bella dell’opera: lo spazio è dominato dal vuoto, le spighe all’orizzonte sono basse, due sedie di ferro battuto in due angoli opposti sono rivolte in due direzioni opposte, come i due protagonisti. In fondo Tatiana ama chi non la ama e a Onegin non si può rimproverare nulla, poiché non è innamorato della ragazza, se non la sua superficialità. La scena è bellissima da vedere e toccante da ascoltare. Poi lui se ne va, lei rimane in ombra, silenziosa, immobile, il coro appena percettibile fuori scena, il velo si richiude, un flauto riempie il silenzio. Commovente. Non posso negare che a questo punto una lacrima mi è uscita e subito dopo, all’accendersi delle luci, mi sono sentito un poco in imbarazzo; invece una gentile e simpatica maschera della platea mi dice che può succedere, che lei ha assistito a sei rappresentazioni e ha pianto ogni volta… Il secondo atto trova Tatiana sola e pensosa davanti alle porte chiuse, seduta a terra, la carta da parati fa un paio di grinze, come il suo cuore deluso e sofferente. All’improvviso si aprono le porte e la festa riempie lo spazio. Assistiamo a un ballo così perfetto, così naturale, che si ha l’impressione che sia un vero ballo e non una rappresentazione. Azzeccate le coreografie di Ron Howell nel primo e secondo atto, mi hanno convinto meno quelle del terzo. Durante i couplets Tatiana sembra assente, come al momento della sfida è fuori dal gruppo, all’estrema sinistra. Dopo “Addio per sempre, Olga!” tutti se ne vanno, Tatiana, sconsolata, infelice, si appoggia al muro e il velo si chiude. Innovativa e bella l’ambientazione del duello: la scena rappresenta l’interno di un fienile davanti al quale si svolge l’azione, fuori dal campo visivo degli spettatori. L’esito si comprende dal rientrare di Onegin dentro il fienile e dal suo avviarsi lentamente al buio in direzione della platea, basito, mentre il velo si chiude. Troppe tende invece nel ballo del terzo atto, unico neo in una messa in scena davvero impeccabile, tende verde acqua che si aprono e si chiudono, che scorrono da una parte all’altra, che rimangono a metà svelando e coprendo ballerini e coristi, che invero creano solo confusione. È passato del tempo: i capelli di Onegin sono spruzzati di grigio e Tatiana è divenuta la moglie di un altro. La scena è identica a quella del primo atto, le sedie sono diverse, di legno intagliato, ma nella identica posizione. Ora è Tatiana a leggere, ora è Tatiana che dice di no. Una lama di luce obliqua rende immateriale il momento, i fiati sugli archi pizzicati ne esaltano l’intimità. Tatiana per sopravvivere al rifiuto di Evgenij ha dovuto pietrificare il suo cuore ed è divenuta indifferente ed altera. “Addio per sempre”. E si siede. Onegin se ne va. Il sipario si chiude. Per sempre. Il fascino di Tatiana è nella sua natura immacolata, nessuno riesce a sfiorarla, domina se stessa e gli altri, irraggiungibile immagine di donna ideale, capace di dire di no in un’epoca in cui le eroine si uccidevano a iosa per amori infelici. Bravissima Olga Guriakova, voce scura ma capace di salire e scendere di registro con proprietà e bilanciamento; ottima anche la prova attoriale. Il fatuo cinismo di Onegin è ben reso da Ludovic Tézier, ottima voce fin nelle rifiniture ma un poco legnoso nella recitazione. Magistrale la sua prestazione vocale, che passa dal distacco del primo atto alla sofferenza del terzo. Accanto a loro figurano ottimamente Giuseppe Sabbatini (Lenskij), Nino Surguladze (Olga), Alexandrina Milcheva (la madre), che danno compiutezza ad una storia d’amore vissuta all’insegna dell’insoddisfazione e dell’inutilità. Mi chiedo che cosa sarebbe stato di quell’amore se avesse fatto la dura esperienza della quotidianità, magari sarebbe finito di lì a poco. I rimpianti e la lontananza mitizzano le cose rendendole più facili, belle e romantiche, prima che difficili e tristi, come spesso può sembrare. La vera domanda è se Tatiana è in grado di riconoscere l’amore, se ha il coraggio di accoglierlo e rispettarlo. O nega ogni altra soluzione da quella di crogiolarsi allo spiedo dei “come sarebbe se..”. Da qui il senso di solitudine, senza romanticheria. Siamo noi la causa prima della nostra infelicità. FRANCESCO RAPACCIONI Visto a Milano, teatro alla Scala, il 27 gennaio 2006
Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)