Arriva nel nuovo teatro dell'Opera di Firenze il terzo Falstaff di Luca Ronconi (i primi due con direttori di peso quali Solti e Mehta in festival di prestigio come Salisburgo e il Maggio) e si rivolge all'Ottocento di Verdi e Boito ma per trasfigurare quella tarda rivoluzione industriale italiana in chiave malinconica, una garbata nostalgia che evita ritmi frenetici. Ne risulta un'amara commedia che non disdegna il sorriso ma che rivela uno spessore a prescindere da Shakespeare e da implicazioni psicologiche moderne. Il regista è efficace nel ripensare i rapporti di forza tra i protagonisti e nel descriverli nei loro caratteri vivi e presenti, originali senza alterare il libretto e il senso della storia, ottenuti con espressioni del viso, curatissimi gesti, movimenti pieni di significato. Così le comari non sono più ciarliere donne di provincia ma figure intelligenti e volitive, dai caratteri forti e determinati che condizionano gli eventi secondo il loro volere e non esitano a mostrare reciproche invidie: le oche che appaiono a fondo scena finiscono per essere spennate in modo rabbioso. Falstaff è spesso sopra al letto da cui sembra assistere agli eventi in modo quasi rassegnato. E il terzo atto appare come un suo sogno tinto di azzurro.
La scena di Tiziano Santi ha, su fondo e lati, tre grandi tele di stoffe grezze macchiate dallo scorrere del tempo (nella camera di Alice una diventa drappo rosa che occupa anche il pavimento) e tese con funi a vista e si caratterizza per le macchine dell'epoca (a vapore, a pedali, a trazione manuale e animale) usate dai protagonisti per entrare e uscire e anche nei movimenti sul palco. Pochi gli attrezzi di scena, gli indispensabili, stondati negli angoli e con un che di favolistico nei profili, nella camera di Falstaff ammassati come dopo un naufragio. Nell'ultimo quadro una grande quercia pende dall'alto rovesciata e incombe sopra il letto del protagonista: un sogno piuttosto che una burla? Questa rarefazione nella scena giova all'azione che ne esce esaltata. A terra tappeti erbosi, ingiallito quello per Falstaff, verde brillante quello per le comari. Bellissimi i costumi d'epoca di Maurizio Millenotti che ricreano un ambiente borghese senza falsa ostentazione. Determinanti nella riuscita dello spettacolo le perfette luci di AJ Weissbard, che illuminano un mondo reale e al tempo stesso simbolico.
Ambrogio Maestri sostituisce Roberto De Candia (che nella recita a cui abbiamo assistito è impegnato come Ford in sostituzione di Alessandro Luongo): egli è il Falstaff per eccellenza di questi anni e, insieme al poderoso fisico, la materia vocale c’è tutta: colore, morbidezza, possanza, stile verdiano; nonostante la prestazione sia parsa meno accurata nei presentare i diversi risvolti del ruolo rispetto a recenti recite in altri teatri, la voce potente ed estesa è usata con grande intelligenza, gli acuti sono facili e timbrati, i centri sonori arricchiti da armonici preziosi, i gravi sensuali e illanguiditi da ironica baldanza, ma le frasi in falsetto sono sfocate; scevro da manierismi e gigionate, il cantante sfoggia una parrucca bianca a caschetto che poteva essere evitata perchè, nell'idea di Ronconi, Falstaff non è un buffoneggiante anziano ma un agée aristocratico decaduto, un ragazzotto mai cresciuto (la dice lunga quel maglioncino con la “F” sopra). Roberto De Candia (che abbiamo apprezzato nel ruolo del titolo a Bari al debutto di questo allestimento) è un Ford ideale per ampiezza vocale, linea facile e solida, varietà d'accenti. Yijie Shi è un Fenton minuto in tuta da meccanico che ha voce di grande nitore e acuti cristallini, bene amalgamato con la Nannetta della brava Ekaterina Sadovnikova. Eva Mei è la perfetta Alice voluta da Ronconi: oltre a cantare bene, è volitiva, intraprendente e indipendente. Accanto a lei la Quickly cupa e introversa di Elena Zilio e la precisa Meg di Laura Polverelli, non subalterna ad Alice ma rivale ad armi pari e invidiosa dell'amica. Bravi Gianluca Sorrentino e Mario Luperi (Bardolfo e Pistola), anche involontariamente comici per essere uno piccolino e l'altro altissimo e magrissimo. Perfetto il Cajus di Carlo Bosi. Il coro del Maggio è stato ben preparato da Lorenzo Fratini. Le comparse si muovono con piena coerenza e grande attorialità e, nella scena del bosco, indossano splendidi costumi da insetti che colorano l'atto di toni da leggero incubo.
La chiave malinconica di amara commedia e il piglio volitivo delle comari sono le chiavi di lettura anche della direzione musicale. Zubin Mehta ha un rapporto privilegiato con l'orchestra del Maggio: notevole è la varietà cromatica nel rispetto dei tempi e dei pesi timbrici. La dinamica aderisce perfettamente alla narrazione ideata da Ronconi e la arricchisce di malinconici chiaroscuri che esaltano ancora di più i momenti di ironica vivacità e di involo lirico in una straordinaria forza comunicativa. La direzione del Maestro ha esiti diversi rispetto a prove precedenti: qui domina, in modo efficacissimo ed emozionante, un afflato nostalgico da tramonto autunnale ottenuto con tono posato e rotondo.