Nell'anno del bicentenario Verdi-Wagner la Scala apre la programmazione dedicata al compositore italiano con la sua ultima opera che debuttò proprio alla Scala esattamente 120 anni fa, ora in un allestimento che vede la collaborazione con Londra e Toronto (a cui si sono aggiunti recentemente New York e Amsterdam) che manda in magazzino l'edizione padana di Strehler.
Robert Carsen ambienta l'opera nell'Inghilterra degli anni Cinquanta del Novecento e in un hotel di lusso dove la principale occupazione pare essere riposare, mangiare, andare a caccia. Motivo dominante nelle scene di Paul Steinberg è una boiserie con un motivo a quadrati esaltato dalle venature del legno, alte pareti che rivestono la camera di Falstaff (dominata da un imponente letto e interamente occupata da carrelli del servizio in camera con gli avanzi di pasti abbondanti), la sala ristorante (dove pendono scintillanti lampadari di cristallo), il fumoir (arredato con olii che raffigurano cavalli, poltrone di pelle consunta e termosifoni di ghisa), le stalle (con un vero cavallo che mangia fieno e nitrisce quasi a tempo di musica) e il giardino-terrazza (coi tavoli che vanno e vengono e le posate momentaneamente in prestito per pungere e pizzicare). Solo una scena è ambientata al di fuori del Grand hotel, il secondo atto nella cucina di casa Ford, con mobili componibili nei nuovi materiali in voga e un tavolo apparecchiato che sostituisce il paravento. In questo caso la boiserie spunta sul fondo perché la cucina si sovrappone.
Anche per questo si avverte con chiarezza il senso della regia di Carsen. Quei cambiamenti sociali che Shakespeare avvertiva e registrava nella sua commedia sono ben immaginabili nell'Inghilterra del 1950, dove la borghesia in ascesa si serviva di elementi immediatamente riconoscibili per denotare ricchezza: abbigliamento, gioielli, arredo casalingo, tutte cose volgarotte. Invece la storica nobiltà guardava ancora al passato, convinta che da questo nascesse la legittimazione per una superiorità sociale: un decadentismo che si riflette, anche in questo caso, negli arredi facoltosi ma consunti e nell'abbigliamento di gusto ma datato (nel finale Falstaff si lamenta che “ogni sorta di gente dozzinale mi beffa e se ne gloria”). A ciò però si aggiunga una naturale umanità e una sincera delicatezza che Falstaff rivela, in contrapposizione al Ford “nuovo ricco” che si traveste da Elvis Presley e ha le movenze del coatto di Carlo Verdone (splendidi e azzeccati i costumi di Brigitte Reiffenstuel).
Carsen cura ogni aspetto della recitazione, comprese le controscene. Lo spettacolo funziona benissimo proprio perché il regista definisce perfettamente i personaggi e i loro caratteri e rende concrete e giuste le azioni che essi fanno. Si è particolarmente apprezzato questo plasmare a tutto tondo ogni personaggio, provvisto di autonoma fisionomia e posto in relazione con gli altri in modo credibile secondo il libretto, mostrando in ciascuno una progressione psicologica.
Il meccanismo di commedia musicale è perfetto e, quando si vuole ottenere un effetto accentuato, si isola una scena per un momento con un gioco di luci pensato dallo stesso regista insieme a Peter Van Praet. Si sorride ma non si ride mai apertamente, come nello spirito di questa opera. È sempre presente un retrogusto di malinconia per il tempo passato, inteso sia come storia collettiva che come vita individuale. Tanto che nel finale si accendono le luci in platea e i cantanti hanno gli indici puntati verso gli spettatori intonando “tutti gabbati” per poi sedersi a tavola a pranzare, incuranti degli spettatori, dopo una sfilata sui tavoli. Ma sarà davvero tutto uno scherzo?
Daniel Harding ha gesto nobile, preciso e misurato e imprime all'orchestra una dinamica vivace e cesellata nelle sfumature di suono e nell'amalgama strumentale. Il direttore garantisce fluidità, morbidezza e briosità senza tralasciare i colori. Si è particolarmente apprezzata la cura del particolare strumentale e la ricerca dei tempi per incrementare le sfaccettature teatrali anziché per mera esibizione, segno di condivisione di intenti con il regista. Infatti le dinamiche portano a un fraseggio orchestrale pulsante, che fa procedere la narrazione con vivacità e illumina i risvolti psicologici dei personaggi.
Ambrogio Maestri è il Falstaff di questi tempi, una rara fusione di cantante e personaggio che lo rende un perfetto Sir squattrinato, maestoso nel fisico e nella voce ma capace di rendere ogni sfumatura e ogni piega espressiva. Massimo Cavalletti ha sostituito l'indisposto Fabio Capitanucci e conferma di avere voce bella e omogenea, accompagnata da un'attorialità calzante nel ritratto del borghese arricchito (nel primo atto Falstaff descrive Ford come “un gran borghese”), uomo piacente e vigoroso. Il Fenton di Francesco Demuro fa il cameriere nell'albergo, per questo Ford non lo vuole come genero e resta insensibile ai sentimenti della figlia a cui impone il matrimonio col dottore come ascesa sociale. Carmen Giannattasio sostiene generosamente tutte le recite nel ruolo di Alice Ford, sostituendo l'annunciata Barbara Frittoli; il soprano ha voce di bel timbro e canta senza difficoltà e con sensuale efficacia la parte della borghesissima signora che pranza con le amiche nel lussuoso ristorante del Grand hotel, indossa un prezioso cappotto di visone ma cucina personalmente a casa. Vocalmente sontuosa, attorialmente brillante: sarà difficile dimenticare la Mrs. Quickly di Daniela Barcellona dagli improponibili cappelli fiorati, dalla salottiera malizia e dalla ingombrante presenza (fa scappare tutti dal club dell'hotel durante il suo duetto con Falstaff). Irina Lungu è una graziosa Nannetta un poco forzata nell'acuto. Laura Polverelli è una Meg Page precisa, ma risulta la meno in vista del quartetto femminile. Completano bene il cast, nel ruolo di due inguaribili e simpatici ladri-borseggiatori, Riccardo Botta (Bardolfo) e Alessandro Guerzoni (Pistola). Con loro Carlo Bosi (Dott. Cajus) e il coro perfettamente preparato da Bruno Casoni.
Teatro gremito, pubblico soddisfatto e moltissimi applausi a scena aperta e nel finale.
SECONDO CAST
Credibili vocalmente e fisicamente, i cantanti del secondo cast hanno rivelato maggiore sintonia con capacità attoriali più spiccate che hanno esaltato gli spunti comici e le dinamiche di relazione tra i personaggi così ben studiate dal regista nei particolari. E il gioco scenico funziona ancora meglio, tanto che gli applausi a scena aperta sono ripetuti ed evidente il divertimento del pubblico per l'intera durata dell'opera, senza cali.
Bryn Terfel ha tratteggiato un ottimo Falstaff: si è particolarmente apprezzata la sua capacità di un canto attento alle sfumature ironiche e sentimentali che spingono sul pedale della commedia, esaltate dai moti del ciglio e del labbro e da una serie di dettagli determinanti che dimostrano la raffinatezza dell'interprete; le stesse imperfezioni di pronuncia si fanno vezzo per esaltare l'aspetto aristocratico del ruolo in antitesi coi borghesi e i popolani. Il Fenton del giovane Antonio Poli è fresco e spigliato e ha voce grande, controllata e ben proiettata; il registro centrale è particolarmente sontuoso e le salite all'acuto sicure. Marie-Nicole Lemieux è una Mrs. Quickly dalla splendida voce, tonante nel grave, ed è campionessa di ironia nella disinvoltura scenica da esperta attrice brillante. Ekaterina Sadovnikova è una graziosa Nannetta, vocalmente precisa. Manuela Custer è un'ottima Meg Page, in rilievo sia nell'individualità attoriale e vocale che nella resa del quartetto femminile: donne oneste e allegre, non gattemorte infide. (visto il 6 febbraio 2013)