Lirica
FALSTAFF

Hotel Falstaff

Hotel Falstaff

Come penultimo titolo in cartellone di questa intensa annata (la prima della gestione Pereira) che il Teatro alla Scala di Milano ha voluto dedicare a Expo, viene riproposto il Falstaff di Giuseppe Verdi per la regia di Robert Carsen, un allestimento che già calcò le scene scaligere nel 2013. L’opera in sé, oltre a essere il testamento del maestro di Busseto e in un certo qual senso designare la chiusura di un’epoca, appare anche strettamente legata alla storia del teatro meneghino dove, il 9 febbraio 1893, avvenne la prima rappresentazione assoluta, e ben si presta, dunque, a essere messa in scena proprio in concomitanza con la conclusione definitiva dell’esperienza milanese dell’Esposizione universale.

L’allestimento, realizzato in coproduzione con la Royal Opera House Covent Garden di Londra, la Canadian Opera Company di Toronto, il Metropolitan di New York e la De Nationale Opera di Amsterdam, riporta la vicenda agli anni Cinquanta del secolo scorso, ubicandola all’interno di ambienti sontuosi, con pareti decorate a boiseries, che stanno a metà strada fra l’hotel di lusso e il gentlemen’s club londinese. Al levarsi del sipario si impone sulla scena un enorme sir John spaparanzato su un letto d’albergo con indosso della biancheria sordida, circondato da una serie di carrelli ricolmi degli avanzi dei pasti consumati, mentre cerca di tenere a bada le ire del dottor Cajus, sfrontatamente derubato da Bardolfo e Pistola. A seguire, ecco tutti gli altri ambienti dell’hotel. La seconda parte del primo atto si svolge ad esempio nel ristorante, il cui soffitto è splendidamente ornato da lampadari di cristallo e nel quale le donne si sono date appuntamento per il pranzo; tra i camerieri ai tavoli un giovane Fenton più attento alle grazie di Nannetta che al servizio. Si passa quindi a una saletta riservata ai soli uomini, alle cui pareti spiccano immagini di cavalli di ogni tipo e sulle cui poltrone distinti signori impegnati nella lettura di quotidiani o in piacevoli conversari vengono infastiditi dalla presenza di Mrs. Quickly prima e del fantomatico signor Fontana poi, i quali creano scompiglio e imbarazzo in quel luogo di silenzio.
All’esterno dall’albergo si svolge, invece, la seconda parte del secondo atto: siamo nella enorme e modernissima cucina color giallo canarino di casa Ford, munita di tavolo rotondo ricoperto da una tovaglia a sostituire il paravento richiesto dal libretto, letteralmente messa a soqquadro da Ford & Co. alla disperata ricerca dell’amante della moglie. Indimenticabile la scuderia con cui si apre, da ultimo, il terzo atto, anch’essa totalmente ricoperta in legno, con tanto di cavallo vivente intento a cibarsi di fieno che, a tratti, pare interagire con Falstaff, mentre quest’ultimo gli esprime tutto il suo sconforto per quanto accaduto. Il semplice espediente dell’apertura delle pareti ci immerge poi in uno spazio che evoca un giardino, quello dell’hotel presumibilmente, in cui lo scherno architettato alle spalle di sir John viene realizzato con l’ausilio di tavoli muniti di rotelle, prelevati con ogni probabilità dalla sala da pranzo, e di costumi con corna di cervo.

A fronte di una innegabile bellezza delle scene di Paul Steinberg, non si può non rilevare come la regia di Robert Carsen sia efficacissima e come, attraverso piccoli ma geniali dettagli, egli ci proponga figure a tutto tondo, diverse una dall’altra, che si fissano indelebilmente nella nostra memoria. Il libretto è rispettato e la trasposizione degli avvenimenti negli anni Cinquanta del Novecento funziona perfettamente, in quanto agevola la sottolineatura di quei contrasti di classe sottesi alla stesura di Falstaff e presenti anche nel clima sociale postbellico. Interessante d’altro canto anche il focalizzarsi con particolare frequenza e attenzione sugli aspetti prettamente mangerecci che non si limitano al banchetto finale ma che fanno capolino un po’ in tutta l’opera, con un chiaro riferimento all’elemento erotico e di conquista.


Nicola Alaimo è un Falstaff straordinario, sia da un punto di vista attoriale, grazie a una innata verve che dà corpo e colore al personaggio, sia da un punto di vista vocale: il timbro è caldo e giovanile, il volume corposo, l’emissione morbida, sempre ben calibrata e ricca di sfumature, come risulta evidente dallo splendido duetto con Mrs. Quickly, il fraseggio eccellente. Estremamente equilibrato anche il divertente e spensierato Fenton di Francesco Demuro, solido ma senza  forzature quando la voce sale, ricco di quella carica che il personaggio richiede, dotato di uno strumento di grande duttilità e limpidezza. Bravo Massimo Cavalletti nel ruolo di un Ford che accentua molto nella recitazione i caratteri tipici del borghese arricchito, riscontrabili anche nel curioso travestimento da signor Fontana che ricorda, quanto ad abbigliamento, un turista americano di provincia con la tendenza a scialacquare: anche in questo caso la voce appare perfettamente proiettata, ricca di sfumature, duttile nel calibrare enfasi e pathos in sintonia con le scelte registiche. Sfavillante per ironia l’interpretazione di Mrs. Quickly fornita da Marie-Nicole Lemieux che ha dato prova di possedere doti da grande attrice, il timbro è brunito e corposo al punto giusto nei toni gravi senza perdere mai di volume, magistrale la cura dei dettagli. Ottima la prova anche delle rimanenti tre donne del quartetto: Eva Mei, sebbene non solita a questo ruolo, risulta perfetta nella sua innata eleganza interpretando la parte di donna di classe in stile anni Cinquanta, una Alice con vestiti dalla vita di vespa e dal seducente décolleté: il colore della voce è gradevolissimo, la proiezione del suono perfetta, gli acuti sempre solidi e squillanti; Eva Liebau interpreta una vivace e innamorata Nannetta, graziosa e intraprendente, dall’emissione delicata e dall’ottima intonazione; Laura Polverelli riesce a dare corpo alla propria Meg e appare sempre a fuoco da ogni punto di vista durante tutta la rappresentazione. Molto buoni anche i ruoli di spalla, il Bardolfo di Patrizio Saudelli, il Pistola di Giovanni Battista Parodi, il Dr. Cajus di Carlo Bosi.

A coronare un cast d’eccezione, l’ottima direzione di Daniele Gatti, sempre alla ricerca di un suono corposo e ricco, dai tempi distesi, ma non priva di brillantezza e colori, aperta a momenti di delicatezza e sentimento, velati invero da una vaga vena malinconica, come durante gli incontri fra Nannetta e Fenton. Ineccepibili come sempre le prestazioni dell’Orchestra e del Coro del Teatro alla Scala.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)