La stagione lirica del Teatro Carlo Felice dedica quest’anno giusto spazio al repertorio verdiano e, dopo Traviata, è la volta di Falstaff, da troppo tempo assente a Genova, a cui seguirà in aprile Don Carlo. L’allestimento proposto è quello ideato da Luca Ronconi nel 2013 per il Petruzzelli di Bari (in coproduzione coi teatri di Napoli e Firenze, allestimenti entrambi recensiti dal sito), ora ripreso da Marina Bianchi, che aveva già collaborato con il maestro nella fase di ideazione dello spettacolo. Luca Ronconi si è più volte confrontato con l’ultimo capolavoro verdiano e quest’ultimo allestimento ne riassume l’estetica e sigla il commiato del regista dal teatro e dalla vita.
La scena essenziale ideata da Tiziano Santi è delimitata da teli grigi tesi con delle funi che costituiscono una sorta di scatola scenica dove pochi dettagli significativi bastano a suggerire ambienti e situazioni: un pavimento di paglia per la taverna dove troneggia un letto e due poltrone sdrucite, un prato all’inglese con oche bianche e pasciute per le comari. L’impianto scenico privo di orpelli va all’essenza della commedia e delle relazioni che si stabiliscono fra i caratteri ma è anche adatto a mettere in rilievo la geometria analitica della partitura verdiana. La particolare struttura musicale fatta di fughe, intarsio di motivi, microarie, concertati, trova un corrispettivo visivo nel preciso movimento scenico degli interpreti spesso disposti su “macchine ronconiane” tirate da cavi o manovrate a vista da comparse, lungo i due assi, orizzontale e verticale, della scena che funziona come un piano cartesiano. Sono “macchine” arrugginite e incongrue: antichi tricicli, carrelli, bidoni, serbatoi e pure vasche da bagno che ribadiscono il valore artigianale dell’attrezzeria teatrale ma che, nel contesto di un’opera di commiato, avvolgono la messa in scena di un’aura crepuscolare dove si respira un forte senso di passato e non a caso prevalgono tinte cineree e polverose per connotare il mondo del “decaduto” Falstaff. Se nella prima parte largo spazio hanno i macchinari e il rischio dell’autocitazione/celebrazione è in agguato, nel terzo atto ci sono spunti originali: una grande quercia rovesciata cala sul letto (fulcro dell’azione) dove Falstaff prima si addormenta, mentre le quattro comari si aggirano per la stanza architettando la beffa in un geometrico gioco di luci e ombre, e poi si risveglia in un’atmosfera onirica dove le pareti sono coperte da teli neri e una luce turchese tinge il sogno di fiaba. Dopo la parentesi fantastica (sogno o realtà?), lo spettacolo si chiude in modo dichiaratamente metateatale con tutti i cantanti seduti in buca rivolti a pubblico e direttore per la fuga/burla finale.
Parola e dizione, al di là degli attributi vocali, hanno un peso determinante nella riuscita dell’opera; Carlos Alvarez, debuttante di lusso, si è confermato un ottimo Falstaff per il canto sulla parola autenticamente verdiano e una voce salda in ogni passaggio; il suo Falstaff è aristocratico e mai sopra le righe e conserva, se pur nella miseria, una nobiltà che si traduce nel canto curato, nel fraseggio e nella varietà di toni; se pur dotato di humour, è un personaggio più serio che comico e trionfa nel monologo del terzo atto, amaro e riflessivo. Alessandro Luongo è Ford; la voce è di bel timbro, ben emessa e soprattutto duttile, per definire il personaggio del marito ruvido e geloso, giustamente gabbato; inoltre alla cura vocale si coniuga una presenza scenica efficace che lo rende un antagonista credibile. Fresco e spontaneo come deve essere Fenton è Pietro Adaini, a partire da una voce lirica giovane piena di comunicativa. Ci è piaciuta anche dalle prime battute l’altra voce tenorile del cast, il Dottor Cajus di Cristiano Olivieri, interessante e ben caratterizzato. Fra le voci femminili segnaliamo Leonore Bonilla, una Nannetta perfetta, oltre che per bellezza, grazia scenica e giovanile freschezza, per una voce luminosa e piena che ha trionfato nella romanza e nella mascherata. Rocio Ignacio è un’Alice scenicamente disinvolta e la voce è gradevole. Qualche perplessità sulla Quickly di Barbara Castri, non sempre intonata. Puntuale e corretta la Meg di Manuela Custer. Divertenti e ben assortiti il Bardolfo di Marcello Nardis e il Pistola di Luciano Leoni.
Della direzione di Andrea Battistoni si apprezza la vitalità esuberante che imprime alla narrazione e soprattutto il ritmo. L’esuberanza limita però inevitabilmente trasparenza e leggerezza di suono e non vengono compiutamente valorizzati i continui mutamenti melodici e le finezze della strumentazione verdiana: Falstaff vorrebbe un suono più definito e anche gli interventi di assieme vorrebbero millimetrica precisione.
Un pubblico attento ha tributato calorosi applausi a uno spettacolo di livello da vedere e rivedere.