Uno sguardo malinconico sull’umana finitezza, quasi un triste sorriso di burla nel tentativo di esorcizzare la morte, quello che lancia Damiano Michieletto in questo suo allestimento di Falstaff prodotto dal Salzburg Festspiele (recensito qui sito in occasione del debutto) e in programmazione ora al Teatro Alla Scala di Milano, uno spaccato ironico (ma non solo) su quel momento dell’esistenza in cui, per dirla con Anacreonte, della dolce vita ormai non resta che breve tempo.
Siamo nella Casa di Riposo per Musicisti Giuseppe Verdi, come già viene mostrato prima dell’inizio dello spettacolo da un video che riprende l’esterno dell’edificio, immerso nel traffico milanese, proiettato in teatro a sipario chiuso. Lo spazio ricostruito dalle splendide scene di Paolo Fantin è quello della sala comune della residenza, in comunicazione diretta, tramite quattro grandi porte a vetri, con il locale ove si consumano i pasti. Un pianoforte, un divano, alcune sedie e poltrone, dei tavolini, un ritratto di Verdi in bella mostra sulla parete di fondo, un anziano cantante che si addormenta e sogna, sogna di essere di nuovo sulla scena, tanto da confondere nelle sue fantasie infermiere e ospiti della casa di riposo coi personaggi dell’opera che, non essendo reali, si palesano al contrario degli altri entrando dalla finestra o si eclissano scomparendo attraverso botole che si aprono nel pavimento. Tutto si svolge nel salone: sedia, paravento e tavolo della casa di Ford sono semplicemente evocati dalle tre donne spargendo cipria per ogni dove, quasi fosse una polvere magica; Falstaff si nasconde sotto un enorme lenzuolo che tutto ricopre; all’acqua del Tamigi alludono secchiate di coriandoli blu riversate addosso al protagonista; il parco reale di Windsor è riportato in vita da una serie di vasi di felci e altre piante di appartamento portati in palcoscenico dai protagonisti.
La vita è un sogno e il sogno è la vita: nel bosco gli spiriti e i folletti non sono nient’altro che i protagonisti della farsa, uniti agli anziani ospiti vestiti in gramaglie, che inscenano il funerale di Falstaff ricoprendolo di fiori e di secchiate di terra, mentre egli, coricato sul divano, non vuole vedere quello che, fra breve, sarà il suo irrevocabile destino. A Casa Verdi però non è alieno neppure l’amore: l’anziano protagonista, ancora attratto da quello che Goethe definì l’eterno femminino, riesce a sedurre nelle sue fantasie una serie di infermiere anche solo porgendo loro delle fragole da gustare; il richiamo d’amore di Fenton e Nannetta risveglia la passione anche in una coppia di teneri vecchietti che rappresenta il loro doppio cinquanta anni più tardi, che si scambia carezze e sguardi d’affetto a significare che l’amore non ha età. Sul finale, mentre tutti in proscenio ci ricordano che Tutto nel mondo è burla, su un velatino viene proiettato un video in cui gli anziani ospiti svegliano a fatica, riportandolo alla realtà, il protagonista addormentato, che finisce per rappresentare tutti noi che non ci accorgiamo di essere ‘gabbati’ dall’ombra di sogno di una vita che non c’è.
In perfetta sintonia con l’intento registico Zubin Mehta dirige un Falstaff elegante in cui una vena di malinconia diffusa prevale sulla brillantezza, l’effervescenza, la vivezza. I tempi sono leggermente distesi, ma precisi, il gesto contenuto, la sintonia col palcoscenico curatissima, la ricercatezza del suono costante in un amalgama di classe.
Ambrogio Maestri, ormai totalmente calato nel personaggio, è un immenso Sir John: lo spessore e il volume vocale sono al solito notevoli, il fraseggio sofisticato, il legato impeccabile, il falsetto naturalissimo, la recitazione spontanea e schietta. Grande simpatia e naturalità di emissione per il Ford di Massimo Cavalletti che si è distinto per la bellezza di colore dello strumento, oltre che per la facilità di salita nella zona acuta. Argutamente ironica anche l’Alice di Carmen Gianattasio, cui va riconosciuto il possesso di una voce morbida e seducente: il suo personaggio di donna energica e volitiva convince e attira, la linea di canto, sebbene non ricchissima di colori, appare comunque sempre armoniosa. La Quickly di Yvonne Naef è ben calibrata e sfoggia un timbro profondo, ricco di armonici. Coerente e perfettamente in parte la Mag di Annalisa Stroppa. Molto buona la coppia Fenton (Francesco Demuro) e Nannetta (Giulia Semenzato): voce duttile, ma limpida e pulita per lui, emissione ricercata e delicata per lei. Di qualità tutti i comprimari a cominciare dal Dott. Cajus di Carlo Bosi fino al Bardolfo di Francesco Castoro e al Pistola di Gabriele Sagona che spiccano per brio.