Parma, teatro Regio, “Faust” di Charles Gounod
NELLA MENTE DI FAUST
Pieno e vuoto, luce e buio, trasparenza e riflesso, reale e irreale, sogno sonno veglia, immagini che sembrano sparire ma poi ritornano: tutto nella mente di Faust, che fagocita e vomita, scompone, compone e dispone, distrugge e crea, ricorda, immagina, forse vive. Vorrebbe avere. E non ha. Non più. Per questo la sua indagine passa dal mondo naturale a quello soprannaturale. Evoca Mefistofele. Forse crea Mefistofele. O Cristo. O chissà chi. Tutto nella sua mente. Tutto nel cubo di De Ana.
L’incipit è nel segno di una tinta cupa, infernale; poi l’arpa introduce un flauto mattutino e un alleggerimento degli archi, prolungato dall’oboe.
Il dottor Faust è sulla sedia a rotelle, il suo studio sembra l’antro di Cagliostro o la cantina del dottor Jackill, feti sotto formalina, uno scheletro, due mani (mi hanno ricordato Mano della famiglia Addams) che escono dal piano di un tavolo e afferrano un calice fumigante, ma soprattutto un cadavere di donna incinta che viene sezionato a rivelare il feto annidato nell’utero sanguinolento. Faust non ha avuto figli, quindi nessuna continuità oltre la sua vita. Oramai è un vecchio sulla sedia a rotelle, che disperatamente cerca di cambiare il proprio destino, evocando un demone. L’apparizione di Mefistofele è come quella di Cristo uscito dal sepolcro, ricoperto da un lenzuolo, scalzo, i capelli fluenti: soffiando infonde giovinezza in Faust, che si trova di nuovo ragazzo, dopo un numero di trasformismo dietro il lenzuolo che nel frattempo Mefistofele si è tolto, rimanendo in pantaloni grigi e gilet tempestato di paillettes e pietre. (Molti sono i richiami ad elementi sacri della liturgia cristiana, processioni, preti, vescovi, calici, fonte battesimale, come è ricorrente il motivo della libellula, nelle vetrate, nel sipario, nelle lampade).
Allora la scatola di vetro prende vita, gira, rivela un labirinto di corridoi e stanze, arrivano persone, soldati, donnine da cabaret, luci. Ma Faust cerca la donna bionda, identica a quella che giace morta e sezionata nel suo studio. Il cubo di vetro gira e gira, Faust vede Margherita e rimane travolto dalla passione; Margherita è a disagio nella confusione e tra le persone, preferisce la tranquillità intima della sua casa piena di fiori. Mefistofele suggerisce a Faust le parole dell’amore, come Cyrano (un libretto audace che di certo la censura italiana non avrebbe accettato). Gli innamorati camminano dentro e fuori dal cubo, si aggirano e si fermano nella teca di vetro, come nei centrotavola di una volta, figure di un mondo innaturale e circoscritto (da Mefistofele). Faust è contagiato dall’atteggiamento di Mefistofele e nel baciare Margherita sembra avventarsi vampirescamente al collo di lei: dal punto di vista registico uno dei momenti più belli è il duetto Faust – Margherita, con i due che si spogliano a distanza.
Faust (insieme a Mefistofele) seduce Margherita, la mette incinta e poi la lascia: Margherita, sedotta e abbandonata, giace sotto una coperta logora e sporca, una lampada diffonde luce fioca ed oscilla. Nella casa di lei sono spariti tutti i fiori, un vuoto lacerante, solo Siebel è ancora vicino a Margherita. A un certo punto torna Valentino, il fratello militare. Anche Faust torna. Ma Mefistofele interviene, fa sì che Faust uccida Valentino e debba fuggire, lasciando Margherita di nuovo sola.
Il cubo di vetro gira e gira, ecco il regno di Valpurga, il regno dell’oblio, ma Faust vede davanti a sé Margherita sofferente, che sta per essere giustiziata perché ha ucciso il bambino che aveva in grembo.
Alla fine il cerchio si chiude, il cubo di vetro non gira più e torna l’immagine iniziale: un lettino anatomico, una sedia a rotelle. Margherita è vestita con il lenzuolo e stringe un fagotto al seno. Si illude di vedere Faust, che sta cercando, ma si ritrova davanti un vecchio su una sedia a rotelle ed indietreggia inorridita. Nonostante la condanna di Mefistofele, per Margherita si aprono le porte del Cielo, il cubo di vetro si divide in due. Ma un ultimo colpo di scena, Mefistofele strappa dalle braccia della madre il bambino morto e, con ghigno satanico, lo depone in grembo a Faust, a colui che aspirava all’eternità.
Uno spettacolo intelligente, complesso ma coerente, di cui Hugo De Ana è artefice unico: sue regia, scene, costumi, luci. Sfarzoso e mai noioso, che cattura e trascina.
Donato Renzetti ha guidato con sicurezza l’ottima orchestra del Regio ed il coro, preparato in modo egregio da Martino Faggiani.
Nel cast ha brillato uno splendido Michele Pertusi, splendido Mefistofele nel fisico, nella voce e nell’interpretazione. Ottimi Roberto Aronica e Inva Mula, la quale convince soprattutto dopo l’aria dei gioielli, affrontata con qualche difficoltà. Eccellente Daniela Pini, un Siebel che ricorda il Monello di Chaplin; eccellente Luca Salsi, un Valentino da ricordare. Con loro buona prova di Roberto Tagliavini (Wagner) e Katarina Nicolic (Marta).
Alla fine applausi interminabili e meritatissimi per tutti.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Parma, teatro Regio, il 29 gennaio 2006