San Severino Marche, teatro comunale Feronia, "Fedra" di Ghiannis Ritsos
UN OCEANO DI PASSIONE. UN OCEANO DI SOLITUDINE.
La passione è devastante. Quella totale. Per cui rinunceremmo a tutto e a tutti, disposti anche ad annientare noi stessi. Quella cieca, istintiva, irrazionale, epidermica. La passione che cerca disperatamente un incontro, ma che spesso trova (o provoca) uno scontro. La passione che sembra essere unico anestetico alla solitudine. Non panacea, ma anestetico, sì, per un sollievo solo temporaneo, solo per non pensare, per pochi, inesorabili, ma vitali minuti, alla realtà dell'essere soli.
La mitologia greca ha posto punti fermi e dato risposte a fenomeni e moti dell'animo altrimenti non spiegabili, dunque più volte nel corso della storia si è sentita l'esigenza di ripartire dal mito per renderlo attuale.
A causa di una vendetta tra Artemide e Afrodite, Fedra si innamora perdutamente del figliastro Ippolito, che però non la ricambia, anzi, più lei si innamora insanamente di lui, più lui è serrato nella sua glaciale asessualità. Fino alla morte di entrambi.
L'autore greco Ghiannis Ritsos, ispirandosi alla cultura classica della sua terra, ha compiuto un'opera di profonda attualizzazione del mito, ridisegnato secondo tematiche e situazioni proprie della quotidianità, rendendolo vicino, umano, contemporaneo. Condivisibile. Il testo appartiene a un ciclo di monologhi di ispirazione mitologica scritti nei primi anni '70, quando il poeta era stato costretto all'esilio dal regime dei Colonnelli. Egli indaga sui turbamenti di una donna vittima delle proprie passioni e dei sensi di colpa che ne scaturiscono.
Sostenuta nel suo percorso vocale dalle musiche di Daniele D'Angelo (che mescolano sonorità di oggi ad altre del passato, rumori metropolitani a suoni agresti, che amplificano e partecipano i sentimenti di Fedra), Elisabetta Pozzi, diretta da Francesco Tavassi, è magnifica, di una bravura indicibile, capace di toccare tutte le corde dell'animo umano, capace di tratteggiarne ogni minima impercettibile sfaccettatura, capace con un gesto o una parola o una intonazione di svelare in un istante tutto un mondo. Capace di partecipare l'enormità di una passione enorme e l'enormità di una solitudine enorme. Capace di trasmettere il senso tormentato della incomunicabilità, quella vera, quella quotidiana, quella radicata in questo nostro esistere di oggi, veloce e frettoloso, in cui il numero fondamentale è quello che riguarda non i sentimenti, ma gli amplessi. Fedra arde di passione, Ippolito è chiuso nella sua castità, due mondi totalmente diversi, impermeabili l'uno all'altro. Quanto spesso le nostre passioni si schiantano contro il muro di indifferenza degli altri. "Le imposte pendono sulla spalla del destino...".
Nelle parole di Ritsos la storia non c'è, la si presuppone ma non la si racconta. Fedra parla in prima persona. Apre il suo cuore tormentato. Soffre e gioisce. Alterna momenti di massima, aerea felicità ad altri di massimo, buio sconforto. Per questo lo spettacolo e il testo sono pericolosamente vicini ad ognuno di noi. Fedra è in molti di noi. Troppo spesso, infatti, per paura, convenzione, compromesso o altro, la passione viene castrata o vissuta con sensi di colpa che la annientano, che la impantanano in un oceano di fango. Che la trasformano, che le impediscono di volteggiare nell'aria, leggera e libera. Che la trascinano in sabbie mobili da cui non riesce più ad uscire, anzi ogni tentativo di fuga, ogni movimento la fanno sprofondare sempre di più. E le persone sole sono quelle più a rischio, perchè la mancanza di un diuturno affetto le rende non solo estremamente vulnerabili, ma anche esposte a livelli esponenziali, essendo alla ricerca di un qualsiasi succedaneo all'amore, anche a pagamento, qualsiasi parvenza di amore che faccia riaffiorare una seppur minima traccia di passione, qualsiasi cosa che brilli anche un solo istante in una realtà che è buia e raggelata peggio dell'interminabile notte artica. E allora si confonde pericolosamente un contatto fugace, disperatamente cercato, con l'amore, con la passione, e si finisce inevitabilmente per perdersi. Vittime incolpevoli della nostra stessa solitudine. La solitudine. Quella che si cerca, quella che si difende, quella che si riconquista continuamente. Quella che si teme, o quella che si ammira. Quella che irrita, o quella che inorgoglisce. Quella di cui non si può fare a meno... Quel terreno su cui si muovono alcune vite, al confine tra libertà e sconforto. Dove le distanze sono abissi. Oppure non esistono.
Visto a San Severino Marche, teatro comunale Feronia, il 12 marzo 2005
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Filodrammatici
di Milano
(MI)