Il teatro Alighieri di Ravenna, dopo quarant'anni, ripresenta al suo pubblico il Fidelio di Ludwig van Beethoven, nella terza edizione definitiva del 1814, un nuovo allestimento in coproduzione con il teatro Comunale di Bolzano. Il capolavoro di Beethoven, unica partitura operistica da lui composta, vide un inizio difficile e tormentato, tanto che venne riscritta per ben tre volte. Fidelio è un Singspiel in due atti, rappresentato nella sua prima versione nel 1805, in piena epoca napoleonica. Narra la storia di Léonore, una donna coraggiosa che non rinuncia a cercare il marito dato per morto: non credendo a questa notizia, la donna si traveste da uomo per entrare nel carcere dove è rinchiuso e, rischiando la vita, lo trova e riesce a liberarlo. Fuor di metafora, il Fidelio è il simbolo ottocentesco della lotta dei popoli contro l'oppressione straniera, un insieme di sentimenti di lotta contro la tirannia e di affermazione di libertà e giustizia, temi cari a Beethoven, che aveva visto con delusione l'astro napoleonico in ascesa sui principî della rivoluzione francese.
L'allestimento si avvale dell'asciutta regia di Manfred Schweigkofler, direttore artistico del teatro di Bolzano; un Fidelio molto quadrato e rigoroso che ha il merito di non raccontare solo il lato serio, etico e filosofico del Singspiel beethoveniano ma anche quello comico e leggero. Di rileggerlo cioè nella totalità dei suoi fattori, tutto giocato sulla recitazione degli interpreti, con un bel lavoro registico. Un allestimento intelligente ed interessante, con scene minimaliste di Walter Schütze e luci di Claudio Schmid: una semplice pedana vuota, circondata dai protagonisti, in costumi vagamente moderni, che vi salgono sopra via via che arriva il loro turno di intervenire nella recita. In più solo qualche sgabello e dei pali (tipo lap-dance) che scendono di tanto in tanto dall'alto, per ricordarci simbolicamente che ci troviamo in una prigione e un'ampia cornice al neon: sono tutto ciò che occorre alla sua messinscena astratta e povera ma molto "calda", capace cioè di rendere i valori umani e universali che attraversano l'opera. Schweigkofler gestisce la parte attoriale secondo canoni da commedia dell'arte, il che a volte finisce per debordare in avanspettacolo, ma mai in modo volgare. In questa ricerca di essenzialità da teatro popolare, la messinscena si sposa molto bene con la lettura musicale imposta dal maestro Gustav Kuhn, che in questo repertorio è sempre voce autorevolissima.
Il punto di maggior fragilità di questo allestimento sta in una prevedibile banalità. La grandiosità di Beethoven, che non per caso nella versione definitiva del Fidelio anticipa la sua celeberrima Nona Sinfonia, consentiva ampi spazi di manovra e territori ancora inesplorati da occupare. Si è voluto insistere in modo particolare su un passato troppo locale dimenticando la vera essenza del teatro, ovvero la sua capacità di fondere, confondere, rifondere e rifondare l'alfabeto della vita. Inoltre la produzione altoatesina ha dato adito a polemiche di carattere pseudo-nazionalistico che poco c'entrano con lo spirito del Fidelio e di Beethoven stesso. Un esempio per tutti la chiusura dell'opera con Leonora e Florestano che si prendono per mano e si incamminano, spalle al pubblico, verso un varco del fondo scena che dà su una via dove si affaccia l'hotel delle Alpi, oppure la proiezione, durante l'esecuzione della ouverture Leonore n. 3, come da prassi mahleriana, di foto che raccontano il passato di uomini e donne altoatesini.
Il soprano giapponese Junho Saito, nel ruolo del titolo, ha dato una buona prova vocale, anche se non di spessore, ma la sua voce risulta melodica, chiara e ben impostata. Michael Baba, in Florestano, è risultato convincente. Ottima riuscita il Rocco del basso Peter Lobert, bella voce calda e buona presenza scenica. Jaquino era Alexander Kaimbacher: voce leggera ma chiara e gradevole, come quella della Marzelline di Rebecca Nelsen. Thomas Gazheli è stato un buon Don Pizarro, ma un eccessivo macchiettismo stereotipato ne ha un poco compromesso le frasi da cantare a mezza voce. Infine, più che dignitoso il Don Fernando di Sebastian Holecek, voce potente e presenza autoritaria.
Alla guida dell'Orchestra Haydn di Bolzano, il maestro Gustav Kuhn ha magistralmente diretto un Fidelio concreto e asciutto, teatrale proprio perché non spettacolarizzato, giocoso, tragico e solenne.
Impeccabile, sia nel commovente coro del primo atto che nelle finali esternazioni di giubilo, il Vienna Philharmonia Choir guidato da Walter Zeh.
Spettacolo pomeridiano gremito per un'opera poco conosciuta ma tanto apprezzata dal pubblico plaudente di Ravenna.