A Manfred Schweigkofler piacciono le storie e le emozioni: “Sono l’essenza e il cuore del teatro. E quale miglior luogo del teatro per poterle raccontare e suscitare emozioni, scrive il regista nel suo sito pubblicato in internet. Il regista ama il teatro a tal punto da farli dire che “le emozioni m’interessano più di qualsiasi altra cosa. Nel teatro cerco il dolore e la gioia, le lacrime e i sorrisi, la condivisione e il rifiuto dello spettatore”. Una base programmatica del suo lavoro e allo stesso tempo anche una sfida rinnovata a ogni sua nuova regia. Questa volta tocca a Fidelio.
Raccontare una storia e suscitare emozioni nell’assistere a una vicenda dove la protagonista è una donna coraggiosa, capace di sfidare ogni sorta di pericolo per tentare di ritrovare l’uomo che ama (dato per morto), convinta della sua esistenza ancora in vita. Si finge uomo per entrare nel carcere dove è sicura che il marito sia recluso, rischia lei stessa la sua vita pur di liberarlo. Alla fine l’amore sconfigge il male e l’oppressione del potere autoritario per un desiderio di verità, libertà e giustizia che Beethoven stesso prova, sopra ogni altro ideale, tanto da aver riposto in Napoleone la fiducia per l’attuazione universale dei tre principi della Rivoluzione Francese: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Dovette ricredersi quando si autonominò Imperatore nel 1804. La cocente delusione lo convinse a togliere la dedica a Napoleone inserita nella Terza sinfonia.
Fatti salvi questi principi etici e morali alla base di Fidelio, la regia si prende cura di come inscenare l’opera, tenendo conto che siamo nel 2011. Non ha più molto senso addentrarsi in un’operazione filologica e riesumare una Spagna datata dove è ambienta la storia. Risale al 1814 la terza ed ultima versione del compositore, ispirata da “Léonore ou l’amour coniugal” di Jean-Nicolas Bouilly, scritto a suo tempo per il musicista Pierre Gaveaux, basato su di un fatto realmente accaduto nella Francia del periodo del Terrore. Genesi travagliata quella di Fidelio, in precedenza intitolata Leonore nella seconda versione del 1806. Beethoven scrisse ben quattro diverse ouverture per il suo Singspiel: due nel 1804, una nel 1805 e un' ultima (quella definitiva) nel 1814.
Schweigkofler nelle sue note di regia afferma: “Oggi l’opera non soggiace più ad alcun obbligo di storicità. Con una messinscena naturalistica non si può rendere giustizia al Fidelio”. Sottoscriviamo tale intento, anche se poi nel finale il regista forza un po’ la mano nel tentativo di collegare la storia del Fidelio con l’oppressione subita dal popolo di lingua tedesca all’epoca del Fascismo in Alto Adige.
La sua regia presenta altri meriti che vanno riconosciuti, dalla sobrietà della messa in scena, cui fa agire i protagonisti, supportata da un’esecuzione musicale di grande spessore. Sul podio dell'Orchestra Hadyn Gustav Kuhn convinto del pensiero “Beethoven –Schweigkofler”. Un’enorme cornice ritaglia uno spazio neutro astratto e geometrico, dove alla base è collocata una pedana –ring che funziona come arena. Sul piano rialzato, formato da un’inferriata di zinco, emerge da sotto la luce a seconda di cosa accade. (Scene di Walter Schütze, costumi di Kathrin Dorigo).
I personaggi si muovono come pedine su una scacchiera. Dall’alto calano a intervalli regolari lunghe sbarre. Rappresentano una foresta, la prigione, la limitazione della libertà individuale. S’illuminano di luci algide o rossastre secondo l’evolversi della narrazione. Intorno il buio a tratti rischiarato da colori usciti da una tavolozza di un pittore fiammingo, tenui, caldi, tinte soffuse, morbide. Effetto delle luci magnificamente ideate da Claudio Schmidl.
Sul fondo i prigionieri seduti composti su una lunga panca, immobili e compassati all’inizio del primo atto, e solo in seguito coprotagonisti corali quando la partitura lo richiede. Un lodevole Philarmonia Chor Wien istruito da Walter Zeh
Il regista li anima per gradi e fa muovere i danzatori della Compagnia Abbandonza/Bertoni, come marionette o tanti soldatini dalle movenze meccaniche. Gli ottimi danzatori (le coreografie sono di Michele Abbondanza) si prestano a un movimento espressionista in puro stile brechtiano, e se risaliamo ancor più indietro alla tradizione della commedia dell’arte, con l’esplicito tentativo di alleggerire il carattere prettamente drammatico, a sostegno di una meta-teatralità dove dare spazio anche al registro comico.
Giochi di prestigio eseguiti dal guardiano Jaquino (Alexander Kaimbacher) e Marzelline figlia del guardiano Rocco (Rebecca Nelsen) costretta dal regista a recitare ammiccamenti da lap dance come se fosse in un musical, alla “Grease”, tanto per intenderci. Arriva perfino a disegnare su una lavagna un faccino sorridente ad uso chat e sms. Rischia di scadere nel kitsch. Al contrario è geniale l’intuizione del regista di far aprire sul fondale il portellone da dove escono Leonore (un’intensa Anna Katharina Behnke, bella voce dai toni bruniti) e Florestan (Andrea Schagerl), finalmente ricongiunti. Il loro respiro esala nell’aria fredda della notte. Esempio di teatro –verità, dalla finzione si passa a una realtà che ci attende fuori dal teatro. Il cinico e malefico governatore della prigione Don Pizarro (un ottimo Thomas Gazheli, il migliore per doti teatrali) è sconfitto e deve rassegnarsi.
Nel cast dove è evidente la differenza di resa tra protagonisti e ruoli secondari, cantano anche Ethan Herschenfeld nel ruolo di Rocco, Sebastian Holecek nei panni del Ministro, Rouwen Huther e Ruggiero Lopopolo (due prigionieri). Sul finale Schweigkofler e Kuhn, alla guida degli ottimi complessi dell’Orchestra Haydn, (un suono omogeneo e solido) optano di far suonare l’Ouverture Leonora n. 3, a suo tempo introdotta da Gustav Mahler, convenzione in uso comune fino alla metà del Ventesimo secolo, nel cambio di scena del secondo atto. “Elemento di collegamento tra la scena in carcere e la successiva apoteosi di luce” è scritto nelle riflessioni drammaturgiche di Franz Braun (co-regista) e Schweigkofler.
Per il regista il messaggio è chiaro: Fidelio è portatore di un messaggio di rinascita, di gioia, vede un futuro roseo capace di sconfiggere ogni pessimismo esistenziale. La musica s’innalza portentosa. Sta qui la contraddizione nella scelta opinabile di proiettare immagini di proprietà dalla Ripartizione Beni Culturali e fornite dall’Archivio provinciale della Provincia di Bolzano. Scene agresti, famiglie costrette a lasciare la propria patria . Visi di uomini e donne sui cui è visibile la rassegnazione. Come dire: attenti anche qui l’oppressione si è fatta sentire. Lo dice anche nelle sue osservazioni il regista stesso: “Fidelio è accaduto e accade ancora”. Verissimo, ma l’opzione Sudtirolo distoglie l’attenzione alla qualità eccelsa dell’esecuzione musicale, quando, invece, la spasmodica attesa dei prigionieri per l’imminente liberazione, è percepibile a fior di pelle. Qui è fondamentale che tutto sia al servizio della musica, se si sceglie di inserire l'ouverture (la introdusse nel Fidelio, Gustav Mahler, e da allora alcuni direttori la ripropongono). Non convince perché interrompe quel ritmo di astrazione teatrale felicemente creato fin lì. Merito di una regia coerente con le proprie dichiarazioni d'intenti.
Le immagini sono preziose sotto un profilo storico –culturale meritevole di essere visibile, magari, in un contesto espositivo diverso. Sarà curioso capire come reagirà l’ignaro pubblico nelle due repliche previste il 5 e 6 febbraio al Teatro Alighieri (Ravenna Manifestazioni è l’ente coproduttore). Nel programma di sala Schweigkofler scrive:”L’arco dell’opera si sviluppa da una commedia a una tragedia per finire in un happy end che però subito inciampa su se stesso”.
crediti fotografici: Franco Tutino