Paolo Mazzarelli e Lino Musella. Per una volta, si vadano a pronunciare anzitutto due nomi, a riconoscere lo stretto legame attore/autore che hanno creato con Figli di un brutto Dio.
Lo scostamento fra i personaggi invece, è forte, ed il loro ottimo modo di alternarli ci fa avanzare fra umanità triste e vera, ed altra umanità ancora più triste ed ancora più vera, sebbene all'apparenza ricca e moderna, quando la scena si trasferisce dietro le quinte di un tubo catodico che ingloba coscienze e vicende, stritolando tutto ed anzi togliendo senso a tutto, dalla banalità del quotidiano alla sacralità della vita e della morte.
L'apertura, con i due falliti della vita -giusti echi autoriconosciuti di Uomini e Topi di John Steinbeck- tocca varie corde, che anziché nel patetico riescono a sorprendere ed anzi anche a commuovere, fra dettagli come una copia nella valigia dei due clochard di Umanità Nova, il periodico di anarchismo sociale e percorsi autogestionari soffocato nel Ventennio, e soprattutto lo sguardo che non c'è, quello di Paolo Mazzarelli, il fallito certificato non solo dalla società, ma anche dalla sua stessa mente. L'altro, intanto, aggiusta telefoni o calcolatrici, inventa arti di sopravvivenza fra idraulica ed elettronica, commenta l'inanità di tutto ciò che passa invano, dalle guerre in poi, e tiene da conto la loro comune valigia di compagni di viaggio: da una parte le cose da mangiare, dall'altra le cose da vestire, da un'altra ancora le cose da aggiustare. E' soprattutto qui, che Mazzarelli e Musella, oltre a dare prova di eccellente sintonia, fanno qualcosa che oggi non è molto frequente trovare sui banchi del mercato delle sensazioni: emozionano.
Loro sono le frattaglie della vita; anzi della civiltà, anzi meglio, di un certo tipo, di civiltà, quella del consumo e dell'immagine, sottolineati dai video proiettati sulla musica dei This Will Destroy You e con suoni di didgeridoo che sembrano veri e propri rimproveri ancestrali.
Subito dopo, gli occhi sembrano ingannarsi, per essere trasportati da un teatro alle scanalature mercificatorie dell'ormai ex tubo catodico, a spiare (reality nel reality...) il colloquio fra il povero abitante del 21° secolo del Regno di Sua Emittenza ed il presentatore di successo che deve selezionare gli aspiranti cerebrolesi certificati del suo reality, in cui imperano regole studiate per l'effetto über alles (“Non si possono avere rapporti sessuali completi... vabbè, insomma, ci siamo capiti, no? Basta che alla fine, ti fermi un attimo prima...”).
Quella che già di per sé è una bella tragedia mentale singola e collettiva, però, lo diventa anche umanamente, per l'intrecciarsi di una storia che vede il fratello dell'aspirante concorrente in fin di vita, e perfino uno scambio di persone fra gemelli, fino alla sciagura del fratricidio di chi ha visto nei suoi ultimi 3 mesi di vita il coronamento del sogno supremo della partecipazione ad uno show, motivo sufficiente per togliere appunto la vita a suo fratello.
Il vicedirettore reality e soft-news fa il bilancio di produzione, destreggiandosi fra ricavi consolidati netti, risultato operativo al netto di ammortamenti e ridimensionamento del TFR, fino ad un blaterare osmotico con impronunciabili parole inglesizzanti, fino ad ammutolirsi: è il vero e proprio Rosario con cui il marketing prende possesso delle anime con ogni mezzo, anche insegnando ad un fratricida di fresco lutto come passare da “lutto, nero, ombra” magica e subitanea Luce, tutto per bucare lo schermo, come si dice oggi, con quel richiamo al buco che sembra tanto significativo.
Oggi saranno meno di cento, gli ultimi Magi, mentre la maggioranza divenuta utente sembra soffrire di telepensiero eterodiretto, come se il massimo numero dei canali fosse anche una cifra corrispondente al senso della vita: il raffinato ritorno ai due clochard nel finale serve allora per rinchiudere dentro le loro stesse follie le tracimazioni del fallimento della società, ed a contestualizzare concetti come la perdita delle speranze, l'essere figli illegittimi della realtà, che al di fuori della barbarie illusoria simbolizzata oggi dalla televisione, riacquistano così, nella loro realtà materiale di ingiustizia, nella mancanza di lavoro, nella povera considerazione del dover campare, e nei gesti e negli sguardi dei due esemplari protagonisti, la medaglia della Poesia.