Con "Filippo Mancuso e Don Lollò" Andrea Camilleri riscrive la commedia brillante su misura per il talento comico di Pippo Pattavina e Tuccio Musumeci.
Lo spin-off della commedia “La concessione del telefono” di Andrea Camilleri riscrive la commedia brillante su misura per il talento comico di Pippo Pattavina e Tuccio Musumeci.
A margine della trama paradossale e tragicomica della commedia madre si colloca il cruccio personale del cavaliere Filippo Mancuso, ossia lo spinoso problema di trovare adeguata “sistemazione” lavorativa e di vita per un figlio poco sagace. Si origina in tal modo la causa prima di un’intricata sequenza di eventi scenici nei quali il filone della commedia degli equivoci, la farsa carnascialesca e motivi risalenti alla commedia dell’arte si assommano, producendo un surreale assemblaggio di grande impatto empatico.
Filippo Mancuso, Don Lollò e gli epigoni di Don Rodrigo
L’articolato bagaglio di strumenti comici maneggiati con versatilità dai due attori catanesi Pippo Pattavina e Tuccio Musumeci rivela un’acquisita naturalezza nella gestione di tempi incalzanti, una matura padronanza nella gestione di intonazioni, gestualità espressiva e linguaggio corporeo. Elementi incongruenti rispetto alla logica comune, pertanto capaci di produrre divertimento immediato, che risaltano in un meccanismo drammaturgico peraltro risaputo; solo i protagonisti assurgono alla dimensione di caratteri, mentre il repertorio degli stereotipi folklorici siciliani e romanzeschi viene demolito e riscritto con la forza dell’umorismo. Il “sentimento del contrario” lascia qui intravvedere nel personaggio di Mancuso il borghese arrivista disposto a qualunque compromesso in nome dell’utile personale, laddove Don Lollò prefigura l’idealtipo del malvivente mafioso in grado di orientare il corso della società con la logica della sopraffazione e la concessione di favori.
Pur nell’intonazione lieve e divertente della pièce, che proietta la storia a più di un secolo di distanza, affiora inoltre l’idea che nella distribuzione dei ruoli lavorativi pratiche clientelari e connivenze illecite continuino a prevalere su una stentata meritocrazia. Uno scenario apertamente ispirato all’eredità dei Promessi Sposi manzoniani -base sovente citata dell’ispirazione creativa del lavoro- che nella presente ambientazione risolve in sberleffo questo mondo alla rovescia di ingiustizie palesi nonché le pretese dei troppi aspiranti Don Rodrigo.
Basterà il “ben dell’intelletto” a salvare il mondo?
In effetti, i frequenti rimandi a celeberrimi modelli narrativi vengono riassorbiti e capovolti nella continua frustrazione delle attese generate dal duplice canovaccio amoroso, sfondo obbligato all’energica vis comica d’insieme. Sia per la coppia dei giovani che per quella dei servitori -ensemble attoriale sempre “sul pezzo- il legame sentimentale conduce ad un’attrazione fisica solo invocata, una sensualità affiorante pure nella preponderante simbologia alimentare, fame insaziabile di cibi succulenti destinata anch’essa a rimanere desiderio insoddisfatto.
Nel familiare contesto vigatese, la regia dinamica di Dipasquale orienta un sistema di quinte mobili che conferiscono movimento ad uno spazio raccolto e sfruttano la stratificazione prospettica di un velatino retraibile per modificare la scenografia con tagli filmici. Su tutto, è la carica straniante del mistilinguismo di Camilleri a prevalere, un godibile pastiche verbale fondato sull’ironia vernacolare e la commistione di generi portato a compimento nei dialoghi dei due interpreti principali. Malapropismi, risemantizzazioni non ingenue, equivoci a ripetizione costellano una performance dove, in definitiva, dinanzi alla colpevole insufficienza delle istituzioni sociali - come in certe novelle boccaccesche- è il talento dell’individuo, lo scatto d’orgoglio dell’intelligenza dei singoli a sollevare in parte dal perpetuarsi delle angherie.