Approda infine anche nella nordica Bergamo il capolavoro eduardiano “Filumena Marturano”, pezzo forte del cartellone del Teatro Donizetti. Il pubblico è entusiasta, applaude alle battute, alle espressioni, alle misurate reazioni dei protagonisti. Gli applausi finali non possono fare altro che decretare il successo di questo ritorno dell’amato Eduardo De Filippo nella Città dei Mille, soprattutto quando a interpretarlo è il figlio Luca, benché vistosamente raffreddato e microfonato.
La storia è arcinota: Filumena Marturano, figlia dei bassi più bassi di Napoli - quelli che ispirarono “Il mare non bagna Napoli” della Ortese – per sfuggire a una vita di miseria e di stenti, dopo essersi prostituita, ha vissuto da mantenuta, o piuttosto moglie mancata, presso la casa del ricco Domenico Soriano, industrialotto appassionato di cavalli, corse e donne. Cerca di farsi sposare da Don Mimì fingendosi in punto di morte, ma l’uomo, truffato, chiede l’annullamento del matrimonio. Filumena ha però ancora una carta da giocare: tre figli segreti, che ha mantenuto con i soldi di Soriano e che ora vuole abbiano anche il suo cognome. Uno dei tre è figlio naturale di Don Mimì, e Filumena, instillando il tarlo del sospetto nell’uomo ormai attempato, lo induce a sposarla sotto il richiamo della carne e del sangue, senza tuttavia rivelargli quale sia il suo vero figlio. ‘I figli so’ figli e hanno a essere tutti uguali’.
Il testo è una partitura perfetta, una bomba a orologeria, un intarsio ineguagliabile sul ripiano laccato di un Maggiolini. Agli attori non resta altro compito che parlare con le parole che il grande Eduardo mise in bocca alle sue creature di carta perché lo spettacolo sia compiuto. La regia di Francesco Rosi non aggiunge nulla alla perfezione dell’originale eduardiano, solo una certa staticità nelle pose dei protagonisti, situati sempre agli angoli opposti del palcoscenico fino alla riconciliazione finale. La contrapposizione tra la Filumena di Lina Sastri e il Don Mimì di Luca De Filippo non è solo visiva, ma auditiva - accentuata dal chiuso dialetto della Sastri, che si rifiuta di parlare in italiano anche con Diana, l’amante settentrionale di Soriano - e gestuale. L’accesa violenza verbale della donna è infatti spesso accompagnata da una gestualità misurata, ma ampia, ostentata, a tratti plateale; Luca De Filippo è invece marcatamente naturalistico nell’interpretazione, che non ha nessun carattere di teatralità.
Adatti alla parte tutti gli altri interpreti – soprattutto la divertente Rosalia di Antonella Morea – fatta eccezione per la statuaria Diana di Silvia Maino, che sembra più adatta a una recita scolastica di fine anno che a un palcoscenico di caratura nazionale.
Degne di menzione le bellissime scenografie dello scomparso Enrico Job: un elegante interno napoletano di metà Novecento, che, attraverso un’ampia vetrata ad arcate ogivali e inserti colorati, si affaccia su una veduta mozzafiato delle bellezze partenopee, dal Maschio Angioino a Piazza del Plebiscito. Una cartolina tridimensionale che colloca nello spazio e nel tempo un capolavoro della drammaturgia dialettale italiana, capace di brillare di luce propria ieri come oggi.
Dedicato a chi ama Eduardo e non si stancherebbe mai di guardarlo, ma soprattutto a chi non lo conosce o non ha mai avuto la possibilità di assistere a una sua messinscena.
Visto il
26-01-2010
al
Donizetti
di Bergamo
(BG)