Prosa
FINALE DI PARTITA

Era stato lo stesso Beckett a…

Era stato lo stesso Beckett a…
Era stato lo stesso Beckett a sottolineare la vicinanza del suo testo con il gioco degli scacchi: “Hamm è il re in questa partita a scacchi persa fin dall'inizio. Nel finale fa delle mosse senza senso che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un bravo giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Sta soltanto cercando di rinviare la fine inevitabile”. Il Teatrino Giullare, compagnia teatrale che da più di dieci anni ha realizzato allestimenti teatrali, mostre e laboratori in Italia ed all’estero, ha rappresentato il suggestivo Finale di partita (con il quale l’anno scorso ha vinto il Premio Nazionale della Critica ed il Premio Speciale Ubu) proprio come una partita di scacchi. Nel buio della sala, si accende la luce di una lampada il cui cono illumina solo un tavolo e lascia in penombra due sedie dirimpettaie. Il ripiano è costituito da un’unica scacchiera su cui ci sono la pedina ferma di Hamm, vecchio cieco su una sedia a rotelle, quella di Clov, alle dipendenze del primo e che invece non può sedersi, e quelle di Nagg e Nell, i genitori di Hamm rinchiusi in due bidoni. Lentamente si avvicinano due figure umane, in silenzio, vestite di nero, con ampi cappelli, guanti e maschere, due esseri anonimi che rappresentano tutti e nessuno. Muoveranno ciascuno una pedina e, tramite esse, si parleranno. Il modo di relazionarsi di Hamm e Clov è sintetizzato dallo stesso titolo: nel gioco degli scacchi il “finale di partita” è caratterizzato dall’esiguità delle pedine rimaste in campo e dal fatto che lo stesso re prende parte ai combattimenti. Inoltre, le mosse diventano più difficili, ripetitive, si sclerotizzano in azioni sempre uguali che faticano a giungere ad una conclusione. Nello stesso modo si comportano i personaggi in gioco, mimando con i loro scambi di battute vere e proprie strategie belliche, insensate perché rese vane da loro stessi: se il primo impartisce ordini per poi ritrattarli immediatamente, il secondo bilancia la minaccia dell’abbandono con una contraddittoria obbedienza. Le prime parole pronunciate definiscono già la situazione: “E’ finita, forse”. Com’è nella tradizione beckettiana, l’ambientazione ha i confini spaziali e temporali sfumati, in una dimensione sospesa, in un non-luogo senza tempo, una sorta di stasi dell’essere: se per quanto riguarda il primo punto, la stanza è una zona delimitata, al di fuori della quale “c’è morte”, una cellula dalla quale due finestre opposte si aprono rispettivamente sulla Terra e sul Mare, vuoti spazi senza nulla, grigie estensioni di materia, per quanto riguarda il secondo alla pressante e ripetuta domanda su quale fosse l’ora, la risposta è “zero”, non c’è tempo, non un prima o un dopo. Parallelamente si svolgono i dialoghi, quali vuote espressioni dell’incessante macchinario della routine che regge l’esistente, una struttura scheletrica in ogni momento sul punto di collassare e che faticosamente si persiste a mantenere. Essendo la tematica fondamentale dell’opera di Beckett la dichiarazione dell’assoluta caoticità dell’esistenza e dell’Universo stesso, anche in questa piece tornano le domande di sempre sul perché della vita, sulla possibilità di darle un senso o no (Clov risponde con una forte e lunga risata) ma poi alla fine ci si rende conto dell’inconcludenza di questi inutili arrovellamenti e quindi a Hamm non resta che dire “basta” e coprirsi il capo con uno straccio insanguinato. La direzione dei burattini è svolta con maestria efficace, tanto che si fatica a ricordarsi della presenza dei due attori-burattinai ed in più l’espressione dei dialoghi attraverso oggetti inanimati ha decisamente intensificato l’effetto di straniamento provocato già di per sé dal testo di Beckett. Milano, CRT Salone, 21 febbraio 2007