Evento speciale dell’attuale stagione teatrale del Centro Teatrale Bresciano, la maratona “Francamente me ne infischio” ha fatto tappa per un’intera domenica al Teatro Sociale.
Lo spettacolo di Antonio Latella, il cui titolo prende spunto dalla celeberrima battuta di Rhett Butler in Via col vento, è una lettura del sogno americano attraverso la figura di Rossella O’Hara.
Per come è strutturato il progetto non è così immediato poterlo definire come “spettacolo suddiviso in 5 parti” o “maratona di 5 spettacoli”, come sarebbe peraltro previsto in locandina. Se alcuni dei 5 titoli potrebbero essere infatti rappresentati autonomamente (Twins, Black e, in parte Atlanta), altri difficilmente possono essere capiti se privati delle parti precedenti (Match e Tara).
Avendo partecipato all’intera rappresentazione, che con le relative pause è durata circa 7 ore, preferiamo interpretarla come uno spettacolo unico, racchiuso da due immagini differenti che però esprimono lo stesso concetto: la prigione di Tara. Se infatti Twins, il primo capitolo, inizia con Rossella rinchiusa in una scatola trasparente a forma di casa, dalla quale riuscirà a liberarsi solo dopo alcuni minuti del suo primo monologo, il finale dell’ultimo capitolo, Tara appunto, è ambientato in una casa-gabbia nella quale Rossella, stavolta impersonata da tre attrici contemporaneamente, si ritrova imprigionata, consenziente, sorseggiando del tè.
All’interno di questi due estremi si dipana una drammaturgia estremamente articolata curata dallo stesso Latella in collaborazione con Federico Bellini e Linda Dalisi.
Il primo movimento, Twins, è un inno alla cultura pop americana. I gemelli Tarleton, da cui il titolo, diventano i gemelli Bart Simpson, cui fanno seguito una doppia Marylin, Rossella e Rhett trasfigurati in Adamo ed Eva che si cibano della mela della Apple, uno Zio Sam con le fattezze da Joker ed un Neil Armstrong che, spargendo bandiere, colonizza ogni spazio disponibile, e non a caso Rossella gli chiede il perché, dopo aver conquistato la luna, non è stata aggiunta un’ulteriore stella sulla bandiera. Discorso a parte merita l’apparizione del gorilla, che potrebbe essere sia King Kong che una delle scimmie di 2001 Odissea nello spazio. Questa figura apparirà in tutti e 5 i capitoli, accompagnando Rossella, o trasformandosi in Rossella, o sostituendola come una sorta di convitato di pietra quando, in Match, i tre uomini della sua vita intavoleranno una discussione parlando esclusivamente di lei.
In Twins l’America è vista solo come star system e puro intrattenimento, dal quale però si rischia di venire risucchiati fino allo sfinimento, come accade a Rossella quando, dopo aver iniziato la sua danza non riesce più a smettere.
Il registro cambia totalmente in Atlanta, capitolo dominato da due colori: il nero sulla scena ed il verde nel racconto.
Il sipario si apre su una scena di lutto in cui Rossella piange con Melania e zia Pittypat la scomparsa del suo primo marito. La protagonista in realtà più che una semplice vedova ricorda una vedova nera, cinica, indifferente alla recente perdita, anzi, quasi sollevata, che si getta immediatamente in platea alla ricerca di un nuovo marito.
Sulle note di un walzer di Shostakovich uno spettatore viene trasformato in Rhett Butler e trascinato sul palcoscenico ed inizia un divertente scambio di battute che dovrebbe portare alla seduzione e relativa conquista.
Quando le luci della festa si spengono la determinazione di Rossella non si arresta: non solo bisogna sempre essere la regina del ballo, ma bisogna agire con determinazione anche nella vita, al punto di sacrificare sull’altare del successo i propri figli, quei figli che nel film non ci sono ma che nel libro sono presenti, nonostante la madre si accorga di loro solo mediamente ogni cento pagine. Rossella adesso è presa dal suo sogno di successo, che assume le sfumature del verde: il verde dei campi di Tara, il verde della tenda da cui ricava il vestito per tornare in società ed iniziare la ricostruzione, e soprattutto il verde dei dollari che sono il vero scopo di questa ricerca.
Black è un tuffo nell’America più reazionaria e razzista. Tre figure: una pellerossa, una donna di colore e Rossella che si presenta come “figlia del gorilla”, a dimostrare che, nonostante tutto, le origini delle razze sono le medesime.
Mentre le due donne appartenenti alle minoranze raccontano i soprusi di cui sono state vittime, Rossella si lancia in una sorta di decalogo in difesa della razza, crudo e spietato. Le musiche sono martellanti, le voci spesso distorte. Unica luce il monologo che l’attrice Hattie McDaniel, interprete di Mami, lesse la sera in cui, prima attrice di colore, conquistò l’Oscar nel 1940.
Gli ultimi due capitoli, Match e Tara sono più introspettivi. Nel primo assistiamo ad una sfida verbale tra Rhett, Carlo e Asley, seduti attorno ad un tavolo, ognuno dei quali cerca di dimostrare agli altri di essere stato il più importante per Rossella. Come in una pièce di teatro dell’assurdo, non ci sarà soluzione alla questione e ne usciranno sconfitti tutti e tre.
Nell’ultimo capitolo la parola scompare, o meglio le tre attrici si muovono lentamente all’interno della gabbia-Tara sulla base di voci registrate che ripetono ossessivamente le stesse cose, a rimarcare sempre di più un’idea di stasi e di immobilità che sembra aver spazzato via il pop, la violenza e la fisicità dei primi capitoli. In questa sorta di “ritorno a casa” le luci si abbassano sulle note della Settima di Beethoven che, come in un disco rotto, ripete sempre lo stesso passaggio.
Al termine delle circa 7 ore, intervalli compresi, l’applauso liberatorio del Teatro Sociale si rivolge alle tre straordinarie interpreti, Caterina Carpio, Candida Nieri e Valentina Vacca, vincitrici di un più che meritato Premio Ubu, che da sole hanno magistralmente tenuto la scena scambiandosi i ruoli ed interagendo alla perfezione.
Come nota di costume va segnalato che tra le grida di “bravo” c’è stata anche una richiesta di bis.
Davide Cornacchione 15/03/2015