Opera in passato popolarissima, ma solo da poco recuperata alla ribalta dei palcoscenici mondiali, ”Francesca da Rimini” è permeata in ogni suo aspetto di quel decadentismo dannunziano cui si ispira in primo luogo il suo libretto, tratto non a caso, ad opera di Tito Ricordi, dall’omonima tragedia del poeta soldato.
Una composizione moderna insomma, intrisa di richiami wagneriani, a Strauss, a Debussy, ma che, a fianco dei nuclei tematici ricorrenti paga anche non pochi debiti alle ‘arie di bravura’ di italica memoria. Un’opera dunque nel suo complesso colta, lussureggiante, musicalmente ben in sintonia con l’estetismo della sua fonte letteraria.
D'Annunzio sulla scena
Le scene pensate da Leslie Travers e la regia di David Pountney hanno come centro proprio lo spirito dannunziano, cui il lavoro di Zandonai si ispirò, attraverso la sottolineatura prepotente dei due temi più cari al poeta vate: la donna, rappresentata da un enorme mezzo busto modellato sulle opere di Canova, e la guerra, protagonista del secondo atto, con la torre rotonda qui reinterpretata tramite una struttura metallica circolare a tre piani armata di cannoni. Non poteva mancare ovviamente il libro, enorme, che funge anche da alcova, avidamente letto dai due innamorati, sui quali sovrasta costante la minaccia, rappresentata da una serie di lame che trapassano la figura femminile di fondo.
Lirismo drammatico
Ottima la concertazione di Fabio Luisi, sempre abile nel sottolineare da un lato il turgido lirismo drammatico, dall’altro le delicate ricercatezze di una partitura complessa e dalle molte sfaccettature, frutto del moderno eclettismo di inizi Novecento. Di rilievo per nitore di suono la prestazione orchestrale degli strumentisti scaligeri e la capacità del direttore di gettare sempre un occhio attento al palcoscenico.
Nel ruolo eponimo Maria Josè Siri sfoggia uno strumento notevole per potenza e luminosità, affiancato da un fraseggio curatissimo. La sua Francesca è una donna timorosa, restia a cadere nel baratro d’amore, insoddisfatta, assalita da presagi di morte, vera eroina novecentesca.
Al suo fianco il Paolo di Marcelo Puente evidenzia una linea di canto più che corretta, ma la voce pare, a tratti, non perfettamente proiettata e un poco inficiata da un vibrato troppo spinto. Gabriele Viviani veste perfettamente i panni dell’impetuoso e violento Giovanni lo sciancato, palesando uno strumento dal bel timbro, solido in tutti i registri.
Squillo sicuro è sadica protervia per il Malatestino di Luciano Ganci, voce piacevolmente brunita per Idunnu Münch nei panni della serva Smaragdi, linea di canto luminosa per Alisa Kolosova, che ben interpreta la sorella Samaritana. Più che adeguati gli altri comprimari. Eccezionale la prova del coro, preparato da Bruno Casoni, che nel secondo atto brilla per volume e coesione non comuni.