Peter Weiss scrive tra il 1963 e il 1964 il dramma "in parole e musica" La Persecuzione e l'assassinio di Jean-Paul Marat rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del marchese de Sade (in Italia è stato pubblicato da Einaudi). L'accostamento Marat-de Sade non deve stupire. Il marchese de Sade fu davvero rinchiuso, dal 1801 fino alla sua morte (avvenuta nel 1814), nel manicomio di Charenton, dove, come precisa la nota storica del testo di Weiss, venivano
rinchiusi individui che si erano dimostrati pericolosi alla società anche senza essere dei veri e propri malati di mente. A Charenton de Sade mise in scena alcuni spettacoli (delle rappresentazioni poco più che dilettantesche, secondo Weiss
esercizi declamatori nello stile dell’epoca) anche nelle vesti d'attore. De Sade non ebbe mai a
scontrarsi direttamente con Marat, sebbene fu lui a pronunciarne l'orazione funebre al funerale. Marat fu ucciso il 13 Luglio 1793 per mano dalla girondina Charlotte Corday che lo considerava un tiranno da eliminare. Weiss accosta questi due personaggi della rivoluzione francese, tra di loro diversissimi e politicamente opposti, proprio perché incarnano per lui due
diversi modi di affrontare la rivoluzione: il radicalismo di Marat portavoce dei sanculotti, critico feroce del governo girondino, trai gli istigatori delle insurrezioni della Comune di Parigi che anticiparono il cosiddetto "periodo del Terrore" (e
che per Weiss era un marxista ante litteram e per questo odiato dall'ottocento borghese) e il nichilismo di de Sade (forse dipinto da Weiss più rivoluzionario di quanto egli non sia stato in realtà). Tra gli altri personaggi del dramma Simonne Evrard, la compagna di Marat, il deputato girondino Duperret, che nel dramma Weiss fa diventare amante di Charlotte, l'ex prete Jacques Roux, ancora più radicale di Marat stesso, più altri personaggi ancora tra i quali il direttore del manicomio e i musici.
Alla fine del dramma, quando l'assassinio di Marat è consumato e tutti i personaggi ritornano in palcoscenico per spiegare le proprie ragioni, Marat non convince de Sade delle ragioni del proprio radicalismo né de SAde riesce a fare altrettanto con Marat mentre Coulmier, il borghese direttore del manicomio, invita tutti a ringraziare Napoleone che ha messo il punto fermo alla rivoluzione.
Di questo impianto rimane ben poco in Furio-Maratdi Andrea Felici.
Sul palco tre donne si rivolgono al pubblico avvertendolo, in rima, dell’inizio dello spettacolo chiedendo scusa se le attrici non saranno all'altezza e potranno scordarsi delle battute, sono pazienti di un manicomio dopotutto... Così inizia il testo di
Peter Weiss ma lo spettacolo se ne discosta subito per intraprendere un proprio percorso di ricerca, una intenzione presente già nel titolo Furio-Marat: "Furio" per rimarcare il risultato di un percorso di ricerca intrapreso proprio al
teatro Furio Camillo dal 2007, "Marat" perché di de Sade non c'è traccia nello spettacolo, ma non a caso. Marat, da solo, rappresenta il potere, quello politico di una nuova classe emergente (che ricorda come ogni rivoluzione sottenga sempre conseguenze reazionarie) ma anche del potere maschile tout court (e non a caso lo spettacolo è messo in scena
esclusivamente da attrici).
Se la struttura drammaturgica di Weiss intendeva interrogare il suo pubblico brechtianamente sulle opportunità della rivoluzione, mettendo a confronto il violento rivoluzionario precursore del socialismo con il libertino e individualista che osò denunciare la decadenza dell’ancien régime, Felici svuota il testo riconducendo questa indagine e questo
confronto al loro grado zero.
Furio-Marat è un'indagine sulle potenzialità contemporanee del teatro, incentrato sul corpo: quello delle attrici protagoniste (che interpretano tutti i ruoli, anche quelli maschili, a turno, a rotazione) Fiora Blasi, Giovanna Conforto e Simona Senzacqua e quello delle danzatrici butoh Alessandra Cristiani, Maddalena Gana e Samantha Marenzi.
Sulla scena questi due universi differenti convivono, separati da un corridoio di vetro che taglia il palcoscenico in diagonale, costituendosi come diaframma tra il teatro-manicomio di Charenton e il mondo esterno a quel luogo di "cura" E tra lo spazio nel quale si muovono le tre attrici e quello dove compaiono le danzatrici, sdoppiando lo spazio performativo.
Furio-Marat gioca infatti su un duplice "doppio": quello tra teatro e danza e quello del teatro nel teatro delle malate di mente che sono chiamate a loro volta a recitare. In questo doppio incessante livello si gioca gran parte dello spettacolo.
Le danzatrici compaiono nella loro parte di palcoscenico come presenze ectoplasmatiche, accennando lentissimi passi di danza, movimenti esistenziali più che coreografie, tant'è che lo sguardo dello spettatore, catturato dal loro lentissimo incedere, coglie quasi delle istantanee di una coreografia più che lo sviluppo organico della medesima. Una coreografia che si fa sottotesto (o controparte) di quanto accade nel lato "recitativo" della scena.
Le malate di mente sono chiamate a interpretare dei personaggi come in uno psicodramma, vivendo in prima persona
l'effetto che i personaggi chiamate a interpretare hanno su di loro, e viceversa. Nella migliore tradizione stanislaskiana le tre donne attingono dal proprio vissuto di malate di mente per dare spessore ai personaggi che interpretano, e lo scarto tra
l'approssimazione delle vite dei personaggi interpretati e l'intensità del loro vissuto in manicomio diventa uno dei nuclei dello spettacolo che si fa studio sull'individualismo e sull'incomunicabilità della società contemporanea, restituendo in
questo modo la vocazione metateatrale del testo originale (dove de Sade autore dello spettacolo nello spettacolo si rivolge direttamente al pubblico).
Quello che colpisce di questa rilettura del Marat-Sade (come ci si riferisce tradizionalmente, ed erroneamente, al testo di Weiss dal titolo della riduzione cinematografica firmata da Peter Brook che spostò l'asse da quello propriamente brechtiano di Weiss a quello del teatro della crudeltà di Artaud) è proprio il pretesto del Marat storico portato in scena (descritto
soltanto come un vecchio colpito da asma e condannato a continue abluzioni per una fastidiosa dermatite).
Felici, confida nella cultura storica del pubblico, perché nulla lo spettacolo ci dice su di lui (se non che verrà ucciso dalla girondina Charlotte) ma, d'altro canto, i rapporti di potere che Marat intesse con Roux e con tutti i personaggi che lo circondano sono ben chiara emanazione dello stesso potere che teneva rinchiusi a Charenton non solo i veri malati ma anche personaggi scomodi come de Sade. Cos' il potere, avulso dal contesto storico, raggiunge una dimensione assoluta. In un continuo gioco di livelli narrativi (e testuali) la scomodità politica di De sade del testo di Weiss è sostituita dalla scomodità politica dell'attore (dell'attrice). Quell'atto individualistico che induce chi fa teatro a mettersi in mostra e chi il teatro lo va a vedere ad essere un voyeur una volta aveva (o poteva avere) una funzione straniante in una sorta di rito collettivo in cui attori e spettatori contribuivano a un ampliamento della coscienza politica e storica degli eventi messi in scena. Oggi questo rito continua ad avere ancora un significato in una società dove ogni storia, ogni immagine, ogni perosnaggio, ogni
palcoscenico è fine a se stesso, vive di pura autoreferenzialità?
Nel guardare i tormenti che le affliggono e lo sforzo fatto dai personaggi femminili nel cercare di dissimulare quella pena la
risposta parrebbe ancora positiviva: il senso ultimo è in quella compassione (nel significato etimologico del termine) e solidarietà tra quelle malate di mente che nasce solo in chi sente insieme come solo le donne sembrano ancora in grado di fare.
Eppure questa rimanenza politica del Teatro è minacciata dall'incomprensibilità di un inconscio, di un monologo interiore che si muove a velocità ben differente da quella del Teatro: la coreografia inintelligibile e lentissima e che sembra distrarre (cosa seguire lo spettacolo da questa parte della scena o la danza da quell'altra?) in una sorta di scontro tra parola e vita (se perdonate la brutale semplificazione).
L'essere qualcos'altro che è la natura dell'attore (dell'attrice) viene qui moltiplicato dalla controparte coreografica, da quell'altro del teatro che è la danza (e le danzatrici, nel finale, guadagneranno la parte di scena adibita alla recitazione come a sottolineare un approdo raggiunto).
Che la coreografia disturbi per la sua non immediata comprensibilità non è un limite ma uno dei punti di forza di uno spettacolo coraggioso che riesce a portare avanti il suo discorso senza essere mai dogmatico, riuscendo anzi a prendersi sul serio proprio quando si prende un po' in giro, e dove il grottesco e il buffonesco non scadono mai nella parodia o nella
burla, dove, insomma, il grande amore per il teatro (e la danza) è il collante segreto, la risposta ultima a una domanda che è forse importante più perché viene (ancora) posta che per le risposte che può nell'immediato trovare.
Roma, teatro Furio Camillo, dal 16 al 21 dicembre 2008
Visto il
al
Furio Camillo
di Roma
(RM)