Ascoli Piceno, teatro Ventidio Basso, “Gabbiano / IL VOLO” di Leo Muscato da Cechov
QUANTO AMORE IN QUEL LAGO STREGATO DALLA POESIA
Non ci sono muri in questo “Gabbiano”, il respiro è la misura di tutte le cose. Quel respiro che consente di volare. La vita descritta nel Gabbiano è libera da ogni struttura drammaturgica, è il ricordo di un sogno: “la vita va rappresentata come ci appare nel sogno” dice Nina.
Lo spazio scenico è una piattaforma irreale, come sospesa nel vuoto, che galleggia, libera, nell'aria, sopra l'acqua, fra il cielo e il mare. Come un gabbiano. Sulle tavole chiarissime di legno di betulla poggia un essenziale teatro greco, all'antica, con le gradinate. O quel che ne rimane. Raggiungibile con due passerelle ancorate alla terraferma. Forse.
Non c'è Russia, non c'è Ottocento. Ma c'è tutto Cechov dentro. Sono stati eliminati i riferimenti spaziotemporali a vantaggio di momenti di vita quotidiana in cui si riconosce un mondo lontano da sé e non raggiungibile, come l'altra parte di un lago se non si è capaci di nuotare. Da questa irraggiungibilità deriva la necessità del Teatro, la necessità di focalizzare i rapporti umani. Una “tensione verso l'alto” che diventa unica ragione di vita, come per Icaro. Unica possibilità di volare. Per chi il Teatro lo fa e per gli spettatori.
Leo Muscato non utilizza traduzioni, perchè riscrive il testo con una lingua propria, cogliendo dentro ciascun personaggio un'intonazione diversa, che risuona insieme alla faccia dell'interprete, al suo colore di voce, alla sua presenza fisica, al suo modo di muoversi, di essere, di cantare.
Il giovane regista sottolinea gli spunti divertenti del testo non allo scopo di strappare una risata incongrua, ma per coglierne, per la prima volta in Italia, il tragicomico. Battute e giochi di parole conquistano il pubblico, a considerare la lunga fila di giovanissimi nei camerini dopo la recita per salutare attori sconosciuti. Cechov pretendeva che i suoi lavori fossero dati come vaudeville, senza neppure il sospetto di soluzioni dolorose, anzi con punte addirittura comiche, tanto da voler far apparire Gabbiano (qui volutamente senza articolo, come nell'originale) come le Nozze mozartiane o le Smanie goldoniane. Gags, spunti burleschi, scatti semantici dal carattere comico che svapora in un'afflizione straniante (Ol'ga Knipper rivelò che Cechov amava i clown e gli eccentrici, creature con aspetti caricaturali).
Il motivo dominante in questa messa in scena, coprodotta con intelligenza e lungimiranza dal Teatro Stabile delle Marche e da Leart', è l'amore, l'amore tra gli uomini e l'amore per il teatro. Muscato concentra l'attenzione su rapporti umani difficili e complicati che degenerano in conflitti: ogni personaggio sembra amare la persona sbagliata. In tutto il teatro di Cechov la bellezza coincide con l'amore, complesse ramificazioni di amore e di passioni abortite, tortuosi tracciati di destini che si accavallano. Ci sono gli elementi essenziali dell'arte cechoviana, l'attitudine rassegnata e dolente a un ineluttabile sempre sottinteso (qui vissuta con ironia), l'attenzione morbosa per il dettaglio psicologico evidenziato dagli oggetti-simbolo, la costruzione di un'atmosfera più che di una vicenda, l'uomo-monade che galleggia nel mare della vita.
La drammaturgia cechoviana è fitta di elementi che assumono un valore emblematico. Muscato coglie l'essenziale del carattere di ogni personaggio e lo evidenzia iconicamente con oggetti-simbolo: Arkadina uno specchio grande; Nina uno specchio piccolo e un paio di ali; Trigorin una macchina per scrivere, la stessa che dopo avrà Kostja quando diventa anch'egli scrittore, mentre prima ha un manoscritto; il dottore una borsa; il maestro una cartella da scuola; l'amministratore un leggìo da musica e la bacchetta in mano del direttore d'orchestra, lui che dirige la vita nella tenuta; la moglie una flashante macchina fotografica; lo zio è sulla sedia a rotelle, “mi tocca stare qui tutto l'anno”; Masha una sedia sulle spalle, l'immobilità. Intuizione poetica sono le ali di Nina, bianche e soffici nei primi due atti, poi un'ala è spezzata quando se ne va con Trigorin, rendendole impossibile il volo, alla fine sono imbrattate di catrame, di petrolio, insozzate dallo sciupìo della vita e dell'anima nell'eccessiva mercificazione in quell'altrove troppo vagheggiato.
Uno dei momenti più alti dello spettacolo è il “rito” della rappresentazione teatrale: i personaggi entrano in scena incatenati da un lungo drappo bianco che vela loro gli occhi, recando in mano candele. Si siedono; all'inizio della recita di Nina, il drappo scivola via e non obnubila più la vista. Il teatro svela e rivela. Il teatro rende consapevoli. E liberi. Liberi anche di partire. Nel primo atto ci sono arrivi e nell'ultimo partenze. Le valige, movimentate sempre con grande leggerezza, alla fine sono pesantissime, cariche di errori, di sofferenze, di vita vissuta.
I sentimenti sono ingigantiti dall'assidua presenza del canto, un incessante accompagnamento sonoro. E i momenti più maturi e convincenti sono proprio quelli cantati, nella compattezza di uno spettacolo che vive di vibranti immagini rarefatte, ritratti di gruppo e di individui alla ricerca di un sentimento per cui valga la pena vivere.
I personaggi si muovono ciascuno secondo un proprio codice comportamentale e subiscono una sorta di livellamento che esclude un protagonista in senso stretto. Muscato mette in risalto l'aspetto predominante del carattere di ciascuno, evidenziandone il potenziale tragicomico. Appare riduttivo definire i protagonisti “attori” quando sono anche cantanti bravissimi, mimi, giocolieri. Il gruppo di giovani, compatto e fortemente coeso, si è formato nel corso di laboratori condotti dallo stesso regista in tutta Italia e in intense sessioni di prova a Montelupone, sulle colline marchigiane prospicienti il mare.
Su Mascia si è concentrata l'attenzione registica: Cechov insinua il dubbio che possa essere figlia del dottore, secondo Muscato lo è e lo si intuisce dalle treccine rasta e dalla pelle scura (l'interprete del dottore è di colore). Vincenza Pastore è una Mascia che si imborghesisce nel corso del dramma, i capelli rasta diventano prima uno chignon poi un'acconciatura più elaborata coi capelli lunghi e lisci; anche l'abbigliamento si imborghesisce, gli anfibi neri lasciano il posto alle ballerine eleganti, da signora bene, però il nero luttuoso resta. Come resta la sedia-simbolo su cui alla fine si carica sopra le spalle il corpo senza vita di Kostja e le ali di Nina sporche di petrolio. I personaggi continuamente entrano ed escono dalla scena, è il moto di anime che cercano invano risorse fuori da sé: alla fine rimane solo Mascia: riuscirà a salvarsi? A maturare? A raggiungere, se il termine ha ancora un senso, un equilibrio?
Il Kostja di Andrea Pinna ha l'entusiasmo degli animi giovani; gioca a “m'ama, non m'ama” con le sedie da sistemare per la recita sul lago. E' il più cechoviano dei personaggi; allo zio che gli dice “il teatro è necessario, nessuno può farne a meno”, egli risponde “ma ci vogliono nuove forme, se non ce ne sono è meglio niente”. Giulio Baraldi è lo zio, ironico e disincantato, distaccato e illuso, rassegnato alla vita ma non alla necessità di prendersi in giro.
Elena Arcuri è Madame, una Arkadina quarantenne altissima che torreggia dai sandali col tacco smisurato, la figura esilmente sottolineata dal tailleur pantalone e dal caschetto di capelli corvini, una donna annoiata e incapace di amare. Da sottolineare che la Arcuri ha curato gli arrangiamenti musicali, essenziali per la riuscita della messa in scena. E come dimenticarla mentre canta con la voce roca e iscurita, seduta di profilo sulla passerella?
Andrea Collavino è un Trigorin che sente visceralmente la necessità dello scrivere, che vive una missione, come Cristo che tanto ricorda quando rimane nudo con un drappo di stoffa addosso: “vivo col fucile puntato, ho una palla di ghisa che mi rotola in testa e mi trascina alla scrivania”. La storia con Nina è un “inciampo”, la sua vita è scrivere, febbrilmente: registrare per raccontare.
Rufin Doh è il dottore di colore in cerca di una figlia da amare. Simone Luglio è il volitivo e dispotico amministratore, Francesca Cutolo la di lui moglie svampita. Alex Cendron è il maestro positivo e posato. Barbara Bedrina è la serva-badante dello zio e parla solo in russo, rappresentando le origini, il legame con la terra, la musicalità di una lingua sontuosa e luminosa.
La Nina-Icaro di Deniz Ozdogan appare estranea rispetto al contesto e, significativamente, è stata scelta una protagonista turca, che parla con accento straniero. Nina è una ragazzina di provincia che sogna di diventare famosa, miss o velina poco importa: purtroppo, quella porta che conduce altrove è spalancata sul nulla, sul vuoto. E il volo comporta uno schianto. La giovane ha una splendida voce ed è efficace il momento in cui canta alla luna affacciata sul lago con le gambe che penzolano da quel teatro che è un pontile: “quanto amore, lago stregato”. L'unico appunto è forse l'eccessiva verbosità dell'incontro finale tra Nina e Kostja che sicuramente verrà “asciugato” nelle repliche. Ma l'immagine di Nina-Icaro con le ali che si stagliano nel buio è indimenticabile ed è stata giustamente scelta per il manifesto.
La scena ariosa e libera è di Carla Ricotti (con la collaborazione di Barbara Borgolotto), qui in una delle sue creazioni più alte, poetica ed evocativa fino alla commozione, come i costumi, infinite variazioni di tonalità avorio senza riferimenti storici e geografici ma capaci di denotare i caratteri dei personaggi. Necessariamente di nero Mascia, nelle progressioni verso la “borghesità” riferite.
Le azzeccate luci di Alessandro Verazzi creano tonalità decise e antinaturalistiche, dall'azzurro all'arancio; a volte si fanno di taglio e si ingialliscono, virando al seppia, per creare una dimensione interiore in cui c'è tutto il senso di questo spettacolo. Uno spettacolo splendido, di forte impatto, molto poetico, divertente, di notevole rilevanza simbolica ma immediato, iconico.
In un momento difficile, in cui si cerca di avere tutto e subito e le parole si fanno confuse, questo è uno spettacolo importante perchè mira all'essenziale e con il tempo giusto, il tempo interiore. Il tempo di vivere. Il tempo di amare. Il tempo di volare? No, volare è impossibile. Se non a teatro con Leo Muscato.
Visto ad Ascoli Piceno, teatro Ventidio Basso, il 15 marzo 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Ariston
di Mantova
(MN)