Posticipata di una serata a causa della pioggia battente, la prima del Gianni di Parigi si è svolta il giorno successivo, non senza disagi e imprevisti. Il secondo titolo lirico del 36° Festival della Valle d’Itria è questa opera dimenticata di Gaetano Donizetti. Gianni di Parigi fu rappresentata per la prima volta alla Scala di Milano nel 1839, contro il volere del suo autore, a quell'epoca dominatore della scena napoletana ma che sperava di farne il suo biglietto di presentazione in Francia, visto il soggetto, già utilizzato dal librettista Felice Romani per il compositore Morlacchi oltre vent' anni prima. Donizetti aveva già composto l'opera prima del 1830 pensando di proporla a Napoli (in questa versione compariva tra l'altro una tarantella poi eliminata).
Con Gianni di Parigi il Festival torna alla sua più consolidata tradizione, quella del repertorio belcantistico ottocentesco. Titolo ingiustamente poco noto e dalla genesi piuttosto complessa, ha avuto in tempi moderni un’unica ripresa, al Festival donizettiano di Bergamo nel 1988 ma, grazie a un potenziale meccanismo teatrale che alterna scene di irresistibile comicità a pagine di autentico virtuosismo vocale, ha i numeri per ambire a rientrare nel circuito delle opere più amate dal grande pubblico. La ripresa di Martina, però, è un’autentica prima in tempi moderni dell'edizione della Scala del 1839, essendo stata proposta a Bergamo la versione napoletana.
Gianni di Parigi offre un tassello non trascurabile nella ricostruzione del percorso artistico del compositore bergamasco. La qualifica di melodramma comico non rende giustizia alla natura vera dell’opera, che al pari della più celebre Elisir d’amore, mescola e contamina con disinvoltura momenti comici e atteggiamenti sentimentali. Gianni di Parigi, pur conformandosi ai meccanismi dell’opera rossiniana, reca in sé le prime avvisaglie di un processo di tendenziale romanticizzazione del teatro comico e di crescente umanizzazione dei personaggi.
Il soggetto, ripreso dal Jean de Paris, portato al successo nella capitale francese dal compositore F.A. Boieldieu, narra del Delfino di Francia che, promesso sposo alla principessa di Navarra, vuole conoscerla prima di decidersi a sposarla. Sotto le mentite spoglie del ricco borghese parigino Gianni, il delfino si reca nella locanda che dovrà ospitare la principessa in viaggio. Grazie alla sua ricchezza riuscirà ad accaparrarsi tutte le stanze e anche le vivande, in modo da poterle offrire alla principessa e al suo seguito. Quest’ultima comprende tutto sin dall’inizio prestandosi a un gioco che sfocerà in un reciproco amore. Tutto ciò si riflette sulla componente musicale: finché si ride, Donizetti utilizza la maniera rossiniana, ma questa cede poi il passo al bellinismo tenero ed estatico dei momenti di effusione lirica e sentimentale. Momenti d’intenso lirismo non mancano, come nel duetto tra Gianni e la Principessa nel secondo atto, così come sono disseminate qua e là le situazioni buffe. Il momento più divertente è il duetto tra il titolare della locanda, Pedrigo, e il borioso Siniscalco della principessa, che il regista immagina come Peter Boyle e Gene Wilder mentre danzano e cantano Puttin’ on the Ritz in Frankenstein jr di Mel Brooks.
La regia, pulita ed essenziale, vivace e ricca di trovate di Federico Grazzini ha trasportato il libretto dalla campagna francese del XIII secolo alla Parigi della prima metà del XX. I personaggi si muovono su una scena creata da Tiziano Santi, che rappresenta l’ingresso di un Grand Hotel con tanto di pensilina in stile liberty, affusolate colonne e rigogliose fioriere e personale alberghiero. Gli eleganti costumi di Valeria Bettella sono fra glamour divistico del corteggio principesco e le rigorose uniformi dei camerieri dell’albergo.
Una diva del grande schermo sembra al suo arrivo la principessa di Navarra, interpretata dal soprano russo di grande presenza scenica Ekaterina Lekhina, limpida e agile negli acuti, purtroppo carente nelle note basse, voce fredda e con una dizione poco chiara. Edgardo Rocha è stato chiamato a sostituire Ivan Magrì nel ruolo non facile, a causa degli ardui passaggi vocali, del finto borghese Gianni, parte concepita per il noto tenore Giovanni Battista Rubini; il tenore h acantato in modo discreto ma con voce poco agile. Certamente la parte del leone l’ha fatta il baritono Roberto De Candia, nella parte del Siniscalco, che ha regalato al pubblico del Festival una prova di grande maestria vocale e scenica, confermandosi uno fra i massimi interpreti attuali di ruoli brillanti. Ottima è stata anche la prova del baritono Andrea Porta, perfetto nella parte del locandiere Pedrigo. I due hanno guidato l’intera operazione buffa della rappresentazione: gustosissimo il loro improvvisato siparietto durante i minuti di pausa forzata per un guasto che ha fatto saltare l’impianto elettrico, in attesa del direttore che non rientrava dai camerini. Brave anche Eleonora Buratto (Lorezza, figlia del locandiere) e Paola Gardina (Oliviero, paggio di Gianni), giovani e dotate di un certo talento vocale e scenico.
Discreta la direzione del maestro Giacomo Sagripanti, alla guida dell’eccellente Orchestra Internazionale d’Italia: ma potevano essere resi più vivacemente alcuni passaggi. Riscontro positivo anche per il Coro Slovacco di Bratislava, diretto dal maestro Pavol Prochazka.
Il pubblico ha esaurito il Palazzo Ducale di Martina e ha apprezzato la rappresentazione con applausi a scena aperta e lunga ovazione finale a tutti gli interpreti, più volte chiamati al proscenio.