La collaborazione tra la Fondazione del Teatro Verdi e la Kitakyushu City Opera– che ha sede nell'isola giapponese di Kyushu - avviata lo scorso autunno per fornire ad artisti giapponesi la possibilità di approfondire la loro esperienza musicale in Italia, ha dato un ulteriore e, per vari aspetti più concreto frutto: quello cioè di portare sulle sponde triestine due allestimenti operistici curati direttamente dalla Kitakyūshū City Opera stessa insieme all’Accademia Operistica Internazionale di Caltagirone. In questo caso, assemblando due atti unici molto amati dal pubblico quali Gianni Schicchi di Puccini e Cavalleria rusticana di Mascagni. Due allestimenti di taglio visivo decisamente classico, come spieghiamo più avanti, e nei quali una buona parte degli interpreti proviene dalle sue fila, mentre l'orchestra è ovviamente quella del Verdi; quanto al coro, artisti del teatro giapponese e della fondazione triestina fondono le loro voci sotto la guida di Francesca Tosi.
Per Gianni Schicchi, il ruolo protagonistico tocca ad un consumato interprete quale Giovanni Guarino: vocalità generosa e ben dispiegata, accompagnata da perfetto senso della parola; in aggiunta, comunicativa franca ed immediata, da attore consumato, che l'aiuta a costruire un personaggio a tutto tondo che conquista subito per schiettezza e simpatia. Non a caso, il baritono pugliese è anche buon docente d'arte scenica.
Gli fanno da contorno la tenera Lauretta di Shikuko To, lodevole nello slancio lirico del suo «O mio babbino caro», ed i voraci parenti di Buoso Donati. Tutti disegnati con efficacia scenica e buona musicalità: l'ottimo Simone di Chikara To, il Rinuccio del tenore Gianni Leccese (un po' divagante nella stornellata «Firenze è come un albero fiorito»), la Zita di Hiroko Esaki, il Gherardo di Vincenzo Maria Sarinelli, la Nella di Yuka Onishi, il Betto di Shinnosuke Hata, il Marco di Yusuke Ito, la Cesca di Sachimi Yamada, lo Spinelloccio di Yoshio Hamada, il Gherardino di Elisabetta Vegliach, il notaio di Carlo Torriani, e per finire i due testimoni (Shinji Ohada, Pinellino, e Takuya Kubota, Guccio), per un bellissimo gioco di squadra.
Due interpreti di lustro costituisco le punte di Cavalleria rusticana, accanto al debole Alfio di Gudo Hasui, alla Mamma Lucia di Michido Honda ed alla Lola di Miyuki Shirakawa, dalla vocalità corretta e ben articolata. E sono la Santuzza di Dimitra Theodossiou e il Turiddu di Piero Giuliacci. Il soprano greco è sopra tutto una grande interprete di Verdi – del quale ha in repertorio moltissimi ruoli, da Nabucco ad Otello – nonché di Donizetti e Bellini, dei quali ha sinora affrontato molti titoli maggiori. Poco Puccini sta invece nel suo carnet, ancor meno Mascagni; insomma, è il belcanto ottocentesco il suo areale d'elezione. Nondimeno, la Theodossiou si è rivelata in passato una gradevole Suzel, e qui sa risolvere la sua Santuzza in modo assai personale, e senza forzare la sua indole: che è quella di definire i propri personaggi con buona psicologia, e con fine e poetica liricità sfruttando al meglio tutta la forza del morbido registro centrale. Ecco dunque consegnata una Santuzza più unica che rara, cantata tutta a fior di labbra, piena di belle sfumature; melanconica, intimistica, e priva d'ogni retorica. Una figura toccante ed umanissima portata avanti senza spargere fiotti di lacrime e senza esplosioni di rabbia, neppure nell'augurare la malapasqua all'uomo che sta tradendola. Una maledizione che, nella sue corde, appare solo un ultimo, desolato grido di dolore.
Ci ha conquistato parimenti Piero Giuliacci nei panni di Turiddu, ruolo che gli è evidentemente ben congeniale. Gli riesce infatti assai bene l'impresa di ricavarne una figura plausibile e ben definita, vocalmente scattante e solida sia nella buona plasticità di fraseggio, sia nella luminosità del colore e nel facile squillo. Lasciando la scena, tra l'altro, con un addio alla madre di non comune intensità scenica. Giuliacci, per di più, si è trovato adover sostituire all'ultimo l'indisposto tenore Kennichi Morioka pur avendo già cantato la sera precedente,.
A sostenere le sorti musicali dei due titoli un giovane talento della bacchetta – l'abbiamo appena apprezzato qui ne Il barbiere di Siviglia – come Francesco Quattrocchi, chiamato all'ultimo a sostituire sul podio dell'Orchestra del Verdi il previsto Francesco Ledda. A queste condizioni, visto il poco tempo a disposizione, non si può pretendere che la sua lettura possa esser né ponderata, né ben approfondita. Nondimeno, la sua concertazione appare sostenuta da idee molto chiare e viene portata avanti da un gesto autorevole, e denota comunque una positiva propensione ad imprimere e reggere sino alla fine, in entrambe le opere, un impulso narrativo fluido ed incalzante.
L'estemporanea fusione tra i due cori – quello del Verdi e quello nipponico – non mi pare abbia dato luogo a risultati entusiasmanti, ma pazienza. Bene o male, in Cavalleria si è arrivati quasi indenni alla fine.
Unica mano registica per entrambi i titoli, ed è quella di Carlo Antonio de Lucia, alfiere d'una visione di taglio tradizionale, assai ricca però di densa teatralità e di felici intuizioni. Una regia molto classica, che scansa le bizzarrie e tende al pieno rispetto del libretto e ad un sobrio descrittivismo; del che il pubblico triestino, notoriamente non molto progressista, gliene è palesemente grato. A bilancio ultimato, una regia che sa come far viaggiare senza intoppi un racconto, procedendo nelle due partiture con lucidità e sagacia: agile e sottilmente ironica in Puccini; vigorosamente drammatica – ma senza inutili platealità – nel capolavoro di Mascagni.
Le scene, che non portano firma, vedono in Gianni Schicchi il lettone e la camera di Buoso Donati stagliarsi su d'un incongruo ed aulico fondale prospettico settecentesco; naturalistica e pianamente descrittiva invece la rappresentazione del paese siciliano di Cavalleria rusticana, con un alto muro di pietra a delimitare il confine tra paese e campagna, un'immensa croce metallica e davanti il declinare di alcune gradinate, dove trovano posto anche i tavoli all'aperto dell'osteria. Costumi anch'essi non firmati, ma tutti pertinenti alle rispettive situazioni.
(foto VisualArt)