Lirica
GINA

Ritorna in vita un lavoro giovanile di Cilea

Ritorna in vita un lavoro giovanile di Cilea

L'attrattiva maggiore di queste recite veneziane di Gina, è che ci permettono di assistere ad un lavoro lirico che pochissimi possono vantare di conoscere direttamente. Trasferitosi nel 1885 dalla natia Palmi a Napoli per terminare gli studi a San Pietro a Majella, dopo il diploma Cilea non solo conseguì l'abilitazione alla Cattedra di Armonia a Santa Cecilia in Roma, ma ebbe pure l'ambito incarico, affidato di tradizione al più brillante degli studenti di composizione di quel prestigioso conservatorio napoletano, di scrivere un'opera per i concerti dell'anno accademico 1887/88. La quale fu appunto Gina, “melodramma lirico” in tre atti su libretto di Enrico Golisciani ispirato alla “comédie mélèe de chants” Cathérine ou La croix d'or di Brezier e Mélésville (Parigi, 1835). L'opera di Cilea vide infine la luce, per vari motivi, solamente il 9 febbraio 1889, eseguita nel piccolo teatro dell'istituto con le forze dello stesso – orchestra e cantanti - poste sotto la guida del suo ventiduenne autore. E fu accolta assai favorevolmente dall'autorevole pubblico e dai critici presenti, tanto da essere replicata per cinque serate, come rammenta nei suoi Ricordi un anziano Cilea, grazie alla «abbondanza e spontaneità melodica, e per la spigliatezza con cui ne avevo svolto i tre atti». Aggiungendo subito, con la consueta sobrietà di carattere, che essa «nonostante la critica benevola va considerata come un semplice esperimento giovanile, che valse a farmi apprendere praticamente molte cose che nella scuola non avevo potuto imparare». L'eco del lusinghiero successo, comunque, gli valse la commissione della successiva Tilda – ahimè, altra opera oggi praticamente ignorata - da parte dell'editore Sonzogno, attento come sempre ai talenti  emergenti.

Dopo quelle remote recite napoletane, Gina andò incontro ad oltre un secolo di oblio. Le prime e sinora uniche sue riapparizioni risalgono infatti a quando venne rappresentata al Teatro Rendano di Cosenza nel novembre 2000, per essere poi ripresa l'anno dopo all'Opera di Roma. In entrambi i casi, sotto la direzione di un giovane Christopher Franklin e con la regia di Italo Nunziata. L'occasione era offerta dal cinquantenario della scomparsa del suo autore, le cui celebrazioni stimolarono la revisione critica - a cura di Giacomo Zani - del manoscritto autografo custodito a S. Pietro a Majella, privo peraltro di due importanti momenti. Vale a dire l'ariosa ouverture – un compito pout-pourri di alcuni temi dell'opera - reperita poi presso il Museo Cilea di Palmi, ed il Coro iniziale dei paesani «Quando dentro al nostro cor» ritenuto a lungo disperso, con l'ipotesi che fosse stato eliminato già allora da Cilea, il quale ricordava come «da buon critico di me stesso, molti punti feci, disfeci e rifeci durante le prove, rattoppando partitura e parti». In realtà, proprio di recente il coro è stato ritrovato da Giancosimo Russo in un altro manoscritto originale, pur rimanendo per il momento ancor inedito.

Esile la trama di questa tardiva pièce au sauvetage, ambientata in un paesino francese ed in piena epoca napoleonica. Gina gestisce un piccolo albergo con il fratello Uberto, promesso sposo di Lilla; l'uomo viene però arruolato dal sergente Flamberge, lasciando le due donne senza sostegno e disperate. Un misterioso ignoto – è Giulio, segretamente innamorato di Gina – si offre tuttavia con generoso impulso di sostituirlo nel servizio militare. Per gratitudine Gina promette allo sconosciuto la propria mano, facendogli pervenire quale pegno un anello di famiglia; se l'avrà ancora al suo ritorno, lo sposerà. Per amore di patria Uberto parte comunque per la guerra; solo dopo due anni finalmente rientra a casa, accompagnato da un eroico commilitone che l'ha salvato a Jena, ed è stato per questo gravemente ferito al posto suo. E' Giulio, naturalmente, che dopo qualche esitazione si rivela essere l'ignoto di cui sopra; a questo punto non solo Gina, che s'è subito invaghita di lui, ma anche Uberto sarebbero felicissimi di un loro matrimonio. Il giovanotto però non ha più con sé il pegno ricevuto, e Gina stenta a credergli; tra l'altro, se qualcun altro arrivasse con l'anello reclamando così la sua mano, la ragazza intende tenere fede al voto fatto. A questo punto, provvidenziale deus ex machina, sopraggiunge Flamberge che l'aveva ricevuto in consegna da un Giulio che si credeva in punto di morte, e glielo ridà. Le nozze con Gina, tra il giubilo generale, sono quindi ora possibili.

Cilea, per indole naturale, fu persona schiva e severo critico di sé stesso. Ed a proposito di questa sua Gina, che la Fondazione La Fenice ha meritoriamente riproposto sul palcoscenico del Teatro Malibran, non si può che dargli ragione. Con un debole libretto alla base e tanti (e forse troppi) i modelli presi a riferimento, dalla veneranda tradizione partenopea di Cimarosa e Paisiello al teatro di vaudeville francese, la drammaturgia patisce alquanto di superficialità. Di converso, l'orchestrazione è condotta con notevole abilità, raggiungendo punte di inaspettata raffinatezza; e molti e felici sono gli spunti melodici, nessuno dei quali peraltro - a differenza di altri colleghi che non sprecarono nulla della produzione giovanile - venne recuperato nei suoi lavori successivi. In definitiva, nell'insieme si palesa partitura incerta e gracilina, un po' per difetto d'architettura e di mestiere, ma ancor più per l'irresolutezza del suo inesperto autore. Il quale non seppe deciderne l'indirizzo generale: cioè se svolgere uno spiritoso lavoro semiserio, oppure immergere lo spettatore in un clima tenero e sentimentale. Così nella partitura si alternano, senza molta coerenza drammaturgica, pagine smaccatamente patetiche e strappalacrime come la turgida aria di Lilla «Ah! Sì, ti prego», la piana romanza di Uberto «Addio! Ti dico addio», la mesta aria di Giulio «Sempre deserto e bruno», da una parte; e dall'altra una divertente tirata da café chantant vesuviano (l'entrée di Flamberge «In pace ed in guerra»), un brindisi generale dal sapore d'operetta («Com'è bello qui seder») oppure un radioso valzerino dalle fiorite colorature, che non sfigurerebbe nel catalogo di Arditi (il «Sì! In mia fé» di Gina). E se il tenero duetto tra Uberto e la fidanzata «Che dì mai tu...Vivrò, Lilla, per riedere a te»,  uno dei momenti migliori del lavoro, sembra curiosamente anticipare d'un paio d'anni il celebre“Duetto delle ciliege” de L'amico Fritz, ad una garrula chanson salottiera degna di Tosti quale «Ascolta la canzon degli augelli» - anche questa in bocca a Gina - fa subito da pendant la retorica e un po' melensa «Niun conobbi mai quaggiù» intonata da Giulio. Ma, volendo essere obiettivi, di più non sarebbe giusto pretendere da un musicista fresco di diploma e ancor digiuno di cose teatrali; e, sopra tutto, ben attento a non trasgredire la tradizione classica. Il vento del Verismo deve ancora prendere a soffiare, benchè manchi veramente poco.

Sia come sia, in veste di appassionato concertatore Francesco Lanzillotta assolve, con innegabile impegno e bravura, il non facile compito di infondere coerenza musicale a questo ingenuo collage, fatto di singoli buoni spunti musicali innestati su una trama zoppicante ed un libretto di scarsa qualità letteraria. Il che fa del primo esperimento teatrale di Cilea una sorta di Elisir d'amore fuori tempo massimo, nei confronti del quale il giovane direttore romano riesce tuttavia, con idee ben chiare e lodevole abilità, a cogliere la giusta atmosfera e ad operare un piccolo miracolo: quello di trarne il miglior profitto possibile, mascherandone accortamente le piccole magagne, e mettendo in buona luce i non molti ma comunque indubitabili meriti. Non ultimo dei quali la fiorente e luminosa orchestrazione, che tra i ranghi dell'Orchestra della Fenice trova ottimi chiosatori.

Quanto al cast, brillano subito per fresche caratteristiche vocali, pertinenza di stile e felice immedesimazione nei loro personaggi la Gina del limpido soprano Arianna Venditelli e la Lilla del brunito contralto Valeria Girardello; Alessandro Scotto di Luzio delinea a perfezione, con la sua solare vocalità tenorile, la lirica figura di Giulio; grande sicurezza e bel dispiego di colori spiccano nell'Uberto del baritono Armando Gabba; poco più che una divertente presenza in scena il debole Flamberge di Claudio Levantino. Ottima la prova del Coro preparato da Ulisse Trabacchin.

La regia di Bepi Morassi lavora su questa esile storia con savia leggerezza, alternando delicato sentimentalismo e frecciate di fine humour: ennesima conferma del suo innato, spiccato e responsabile senso del teatro. Il palcoscenico, dapprima occupato da lunghe distese di candide lenzuola stese ad asciugare, rimosse queste poi man mano si riempie di un tripudio di grandi bandiere tricolori che man mano invadono anche la sala: felicissimi ed attraenti spunti visivi ideati nell'ambito della Scuola di Scenografia dell'Accademia di Belle Arti veneziana, ed i cui autori rispondono ai nomi di Francesco Cocco (scene), Francesca Maniscalchi (la responsabile dei coloriti costumi), Laura Zen e Marta Zollo (laboratorio di costruzioni). Luci di Vilmo Furian.

(foto di Michele Crosera)

Visto il 12-02-2017
al Malibran di Venezia (VE)