Prosa
GIORNI FELICI

Conficcata in una frattura de…

Conficcata in una frattura de…
Conficcata in una frattura dell’asfalto, come un novello Lucifero condannato all’inferno eterno, la Winnie della bravissima Adriana Asti è una donnina piccola, bionda, non più giovane, dal colorito cadaverico ed enormi occhi bistrati, che ruotano e si posano indagatori su tutto ciò che la circonda; occhi tempestosi e guizzanti, che lasciano trapelare tutta l’inquietudine che il corpo, forzatamente immobilizzato, non può comunicare. I pochi movimenti concessi al personaggio di Winnie, nel primo atto di “Giorni felici” di Samuel Beckett per la regia di Bob Wilson, sono dedicati al compimento di azioni ripetitive, monotone, quali lo specchiarsi, il limarsi le unghie, l’ampio ruotare del braccio all’interno della sporta consolatoria e compagna di solitudine, il giocare con la pistola, con il parasole, con il cappellino, con un fazzoletto, con la scollatura del vestito, con lo spazzolino da denti. L’immobilità regna sovrana nello spigoloso mondo monocromatico creato sul palcoscenico, nel quale le parole di Winnie, rivolte più a se stessa che al marito-verme Willie, si ripetono incessantemente, come un’oscura litania, colonna sonora di giorni tutti uguali. Eccoli i giorni felici di Winnie: si aprono e si chiudono con una sveglia assordante, sono accompagnati da frasi ripetitive, da discorsi nel “vecchio stile”, da ricordi imprecisi talvolta incomprensibili che fanno da cornice a pochi gesti calibrati ed esaltati, rimandati per prolungarne il più possibile il piacere e la consolazione. Nel secondo atto neppure questo è concesso alla protagonista, costretta a sprofondare nell’asfalto fino al collo, immobile, ma ancora parlante. Diverse possono essere le chiavi di lettura dell’opera beckettiana nella regia di Wilson: la rappresentazione della condizione umana nella vecchiaia, fatta di immobilità, ripetitività, mancanza di speranza per il futuro e, perché no, anche un accenno alle malattie degenerative del sistema nervoso che tanto affliggono la nostra società occidentale. Oppure la rappresentazione della condizione matrimoniale in cui la donna è un caposaldo della famiglia, un punto fermo, una loquace tiranna che ordina, parla, comunica e richiede attenzioni che l’uomo non riesce a dare, perché più attratto dalla bassa materialità, dal sesso, dagli istinti animaleschi e brutali. Oppure ancora una critica all’umanità intera, destinata a sprofondare nella propria inazione, condannata a ripetere incessantemente i propri errori del passato, illudendosi che niente di brutto potrà mai accadere, che tutti i giorni a venire saranno sempre e soltanto “giorni felici”. “Ciascuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole […]” recitava Quasimodo nella sua lirica più conosciuta; niente più della condizione della protagonista di “Giorni felici” di Beckett e della regia di Bob Wilson, tutta effetti luminosi e raggi di luce, sembra dare corpo e vita a questi due versi. Tuttavia, nemmeno l’immobilità della scena, la circolarità dell’azione, la ripetitività delle battute riescono a distogliere l’attenzione dello spettatore, rapito inesorabilmente dal vortice dei nonsense di Winnie, attendendo un cambiamento che, come nella migliore tradizione del teatro beckettiano, non avverrà mai.
Visto il 15-12-2009
al Donizetti di Bergamo (BG)