Prosa
GIORNI FELICI

IL BECKETT SECONDO WILSON …

IL BECKETT SECONDO WILSON

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IL BECKETT SECONDO WILSON Due rappresentazioni, un leit-motiv. Robert Wilson si presenta al Festival dei due Mondi di Spoleto con la sua interpretazione di due colossi del teatro beckettiano, “Giorni felici” e “L'ultimo nastro di Krapp”, dopo che nel 2008 aveva iscritto negli annali un'”Opera da tre soldi” di Brecht che rimarrà nella memoria. Due messe in scena, come detto, un solo filo conduttore. Inscindibili, inseparabili, al punto che quasi vi si può leggere un implicito dialogo tra i protagonisti delle due pièces, immaginate da Wilson come simmetriche e parallele. “Giorni felici” recita infatti il titolo della prima, “tristi giorni” potrebbe essere l'ideale sottotitolo della seconda. Al centro di tutto un identico volto, cioè due, che si stagliano con il loro candore da trucco di teatro settecentesco sotto il quale due facce, cioè una, animano una narrazione fatta di mimo dal sapore anglosassone in “Krapp”, di due grandi occhi espressivi e penetranti in “Giorni felici”. Il resto è gioco di luce, chirurgicamente studiato per esaltare la visione wilsoniana del tutto personale di Beckett. Un gioco in bianco e nero con poco colore, il colore minimo di una vita - cioè due - che procedono al minimo. Un colore che quando appare evoca più un'anomalia cromatica sulla monotonalità del bianco e del nero che non una reale sfumatura di gradazione. Beckett secondo Wilson, entrambi maestri dell'essenzialità, di un understatement portato alle estreme coseguenze. Portato all'assurdo, ad un teatro dell'assurdo. Quello di Beckett appunto. Assurdità di un teatro che ha poco da dire se non rappresentare ciò che di essere c'è nella realtà. Un teatro che si sostanzia nel suo non-essere essere, e basta. Robert Wilson (degno di nota anche nelle vesti di attore) nell'”Ultimo nastro di Krapp” è una maschera umana, un'icona vivente, che incarna il fluire di un'esistenza che svanisce sotto il procedere del tempo. Un'inquetante pioggia impetuosa e dal suono metallico si abbatte sull'appartamento di Krapp - somigliante più ad una cella che ad un alcova domestica -, testimonianza di un'angoscia che sfocia nella nevrosi e che ossessiona l'esistenza del settantenne Krapp, il quale, come ogni anno in occasione del suo compleanno, si accinge a registrare su un nastro alcune parole di circostanza. Il nastro della sua voce di 30 anni prima riascoltata ossessivamente, i tuoni e i lampi che si incuneano come lancie acuminate nell'appartamento-esistenza di Krapp, l'alcool che ripetutamente si reca a bere dietro il fondo-scena fuori dalla vista del pubblico (a richiamare l'ulteriore elemento del moralismo che impone di celare il vizio), costituiscono un concerto contrappuntistico che restituisce una visione amara della vita, fatta di sprazzi abbaglianti di luce ed oscuramenti, in cui il presente si trasforma seduta stante in passato senza che le illusioni abbiano il tempo di potersi concretizzare. Adriana Asti, al centro della scena di “Giorni felici”, rappresenta un'eruzione della terra, un alieno ectoplasmatico, ma umano, venuto a rammentare la vacuità di un'esistenza che, al pari di lei, è sospesa a metà: in parte fuori in parte dentro dal cratere (che nell'idea di Wilson è un sollevamento dell'asfalto). Un'eruzione che, decorso il proprio tempo di esistenza, svanisce allo stesso modo in cui appassisce un fiore, risucchiata nello stesso orrido dal quale è emersa (o sprofondata). Nel mezzo un linguaggio comico-sarcastico, di saltuari richiami all'unico individuo presente oltre a lei in scena ma nascosto - il marito Willie - che simboleggia l'altro-da-sé, fruibile a mo' di oggetto, al pari delle altre suppellettili che Winnie ha accanto a lei durante l'emersione-sprofondamento. Winnie e Willie, in una non certo casuale assonanza fonetico-semantica, rappresentano la diversità-identità tra individui legati da un qualche rapporto interpersonale, nella fattispecie il vincolo coniugale; vale a dire il nichilismo esistenziale infiltrantesi nelle relazioni inter-umane, che colloca queste ultime sullo stesso piano di un consumo materiale. Una conferma cioè del proprio ego attraverso l'altro, l'uso degli altri per affermare in ultima analisi il proprio Io. E ogni giorno che passa deve essere, negli auspici e nei bilanci di fine dì, un giorno felice. (spettacoli visti il 29/6/2009 e il 5/7/2009)
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