In occasione del Festival Verdi 2016 e per un suo rilancio, si è deciso quest’anno di valorizzare lo spazio del seicentesco Teatro Farnese come cornice suggestiva ricca di potenzialità per un’opera verdiana di difficile rappresentazione, Giovanna d’Arco. Geniale dunque l’idea dei registi Saskia Boddeke e Peter Greenaway di capovolgere la funzione degli spazi di platea e palcoscenico rispetto al teatro per sperimentare un nuovo e interessante risultato acustico e logistico. Comode poltroncine per il pubblico sono state collocate a partire dalla zona del palcoscenico originario del Farnese fino a raggiungere una pedana circolare che funge da nuovo palcoscenico e dove si svolge l’azione drammaturgica, affidata al canto dei soli solisti in dialogo con l’orchestra posta allo stesso livello della pedana, mentre il coro, altro grande protagonista di quest’opera, occupa il primo gradino della struttura lignea in origine destinata al pubblico. Appunto questo spazio architettonico di forma semiellittica, con le gradinate lignee sovrastate da arcate a più livelli, è stato giudicato dal regista funzionale alle videoinstallazioni (video edit di Elmer Leupen e video design di Peter Wilms) che si susseguono incessantemente proiettate sul fondale architettonico. E così figure geometriche, arabeschi, simboli religiosi, immagini colorate e in bianco e nero, gigantografie di volti e oggetti sono presenze forti che inevitabilmente distolgono l’attenzione dalla musica e dal canto anziché chiarire la vicenda e i conflitti fra i personaggi. Spesso si tratta di visioni troppo invasive, inutilmente didascaliche (la foresta, la neve, la corona, la croce) o svianti rispetto al soggetto dell’opera con riferimenti generici a un’attualità di guerre, vittime e migranti. Altrettanto inefficace dal punto di vista della partecipazione emotiva, l’aver costantemente affiancato alla figura di Giovanna due doppi, ovvero due danzatrici, che interpretano sulla scena le due anime di Giovanna: quella “guerriera” e quella “innocente”.
Le scelte registiche distolgono inevitabilmente dalla musica e dal canto, ma anche la direzione di Ramon Tebar non riesce a tradurre tutta la complessità di orchestrazione creata da Verdi: i tempi sono spesso lenti o si indulge in un forte bandistico per suggerire in modo superficiale il dramma.
Decisamente buono il cast vocale. Abbiamo apprezzato in particolare il Carlo VII di Luciano Ganci, giovane tenore dalla voce squillante e generosa sicura nei passaggi e nell’acuto. Giovanna è stata interpretata da Vittoria Yeo, cantante che ha colto soprattutto l’aspetto lirico del personaggio, ma l’interpretazione rimane generica e penalizzata dall’invadente presenza delle danzatrici non assurge a ruolo protagonista. Bene anche Vittorio Vitelli, un Giacomo dalla voce baritonale morbida e omogenea, ricca di suggestive bruniture. Concludono adeguatamente il cast Gabriele Mangione (Delil) e Luciano Leoni (Talbot). Come sempre all’altezza della sua fama il Coro del Teatro Regio per compattezza e precisione, autentico protagonista quasi sempre presente in scena a sottolineare le varie situazioni drammatiche in dialogo con le voci soliste.
Da sottolineare la presenza, in un teatro esaurito, di un pubblico internazionale, a conferma che il Festival verdiano ha ritrovato un nuovo slancio. Pieno successo alla fine nei confronti dell’allestimento e di tutti gli interpreti.