Il Giulio Cesare di Alex Rigola è noioso.
La sensazione di noia che accompagna lo spettatore per i circa 120 minuti di spettacolo non è una constatazione finale, ma si determina come assunto di partenza. D’altronde tutta la messa in scena del direttore della Biennale Teatro 2016 si propone come un assunto, un teorema, una sorta insomma di generale problema da svolgere e non da risolvere.
L’immagine di Obama che osserva con i suoi collaboratori l’azione che porterà alla morte di Bin Laden e quella del povero bambino a faccia in giù sulla spiaggia di Bodrum in Turchia sono le premesse di questo grande teorema, proiettate ad inizio spettacolo sul parallelepipedo bianco che funge, seppure con un effetto eccessivamente bidimensionale, da unico elemento scenico. E se qualcuno non lo avesse ancora capito ci sono, a mo’ di sigla iniziale, le didascalie a ricordare che Obama ha poi vinto il Nobel per la Pace e a chiedersi quanto un tale premio sia compatibile con chi ha comunque ordinato la morte di un uomo, pur terrorista che fosse.
La domanda iniziale dunque è: può la democrazia essere davvero scevra dalla violenza? Può l’essere umano liberarsi dalla contraddizione del si vis pacem, para bellum? Dunque, per rispondere a queste domande ecco pronto il più politico dei testi di Shakespeare, il Giulio Cesare appunto, declinato in scena come una sorta di apologo morale e per questa ragione, quindi, noiosissimo.
Lo spettacolo inizia e procede tra continue citazioni, dalle camicie bianche con bretelle scure indossate dagli attori che richiamano un Bob Wilson da Biennale fine anni ’60 al Cesare femminile come addirittura doppia citazione, da un lato il richiamo alla latente e favoleggiata omosessualità di Cesare stesso e dall’altro l’immagine della donna di potere che sembra strizzare meglio l’occhio alla contemporaneità, ancora la scritta WORDS campeggiante sul già citato parallelepipedo che ci ricorda come il potere e la violenza risiedano nell’abilità seducente delle parole, e ce lo ricorda guarda casa con una parola, anzi con la parola che significa parola, per finire al grande coniglio di pelouche nascosto sotto il cumulo di ossa e che è nella stessa posizione del povero bambino di Bodrum visto all’inizio, dunque citazione finale della citazione iniziale. Quadratura del cerchio.
E’ tutto così lo spettacolo, una specie di elargizione continua di significati che rimbombano e si accumulano, un accumulo di segni, appunto, che ha sapore di già visto, di quel visto che in verità vorresti evitare di rivedere. "Uno spettacolo", scriveva Eugenio Barba nel suo 'La canoa di carta', "non deve mai dire troppo, né troppo poco. Dire troppo significa sottrarre mistero, scoprire tutto e perdere la sottigliezza delle allusioni, aumentare i segni a dismisura significa mortificare l’intuito e l’ascolto".
E forse è proprio questo l’anello mancante dello spettacolo di Alex Rigola, l’ascolto, quello che viene accarezzato dalle voci degli attori, perfino dalle loro strozzature, il fiato perduto delle lunghe tirate e l’afonia arcana dei silenzi densi di significato, le voci tese e spezzate, le voci frantumate dal dolore ma anche piene di orgoglio feroce. Dov’erano queste voci? In scena i vari Scandaletti (Bruto), Maccagno (Cassio), Costa (Porzia) non andavano oltre esili tentennamenti e una uniformità vocale in alcuni casi imbarazzante, quando poi si impossessavano di un microfono, ah già ennesima citazione del potere delle parole (Sanremo? La Leopolda? Comizio di massa?), l’imbarazzo diventava strazio. Le voci nei microfoni perdevano l’ultimo brandello di spessore, riducendosi a poltiglia sonora.
Ecco, senza questo spessore, senza questa tensione, seppur a fasi alterne si salvava, va’ detto, il solo Michele Riondino (Antonio), il Giulio Cesare di Shakespeare si trasforma in un forsennato rincorrersi di azioni che dovrebbero essere spiazzanti e incisivamente problematiche, ma che invece per lo più sono prive del ritmo e dell’intensità che si meriterebbero.
Così, tra un pogo ballato dai personaggi pelosamente vestiti da lupi (homo homini lupus?), il fantasma di Cesare che fa il Tai Chi nel bel mezzo della carneficina di Filippi, immagini splatter a go go con Stalin e Trump, Mussolini, Merkel e Berlusconi, se ne va una serata dimenticabile, uno Shakespeare che in questa overdose da memoria dei quattrocento anni dalla sua morte forse avrebbe potuto esserci risparmiato.
Ma prima del flebile applauso finale del pubblico del Goldoni e del meritato abbandono della sala ecco l’ultima gioia, Bruto e Cassio uccisi da un colpo di microfono al petto.
Ed è così che Rigola ci lascia finalmente liberi di andare.