Lirica
GIULIO CESARE

Giulio Cesare fra Egitto e Bosnia

Giulio Cesare fra Egitto e Bosnia

Uno dei capolavori dell’opera barocca è andato in scena al Teatro Alighieri di Ravenna: il Giulio Cesare di Georg F. Händel, un allestimento realizzato in coproduzione con i teatri di Ferrara e Modena. Giulio Cesare è forse una delle produzioni più popolari del compositore tedesco, soprattutto nel XX secolo, ma rimane sempre – come tutte le opere händeliane e del periodo – difficile per noi contemporanei, soprattutto per l’ampio uso dei recitativi e per la lunghezza, sia pure in questo caso tagliata di alcuni numeri dei quaranta complessivi.

La direzione musicale è stata affidata ad Ottavio Dantone e alla sua Accademia Bizantina. Dantone è uno dei massimi esperti di musica barocca in Italia e in Europa e le sue produzioni vengono registrate dalle principali case discografiche del settore; la sua scelta, in questo Giulio Cesare, è stata di epurare tutti i cori e tagliare diversi recitativi, ma anche alcune bellissime arie come Quel torrente che cade dal monte cantata da Cesare. I tagli e le aggiunte erano comuni nell’opera barocca, ad ogni ripresa, perciò non deve destare scandalo ma solo uno snellimento adeguato ai tempi. Infatti se il pubblico ha apprezzato, rimanendo in sala fino alla fine, lo si deve a uno spettacolo che sa valorizzare le delizie di questa opera del 1724: una quantità di bella musica superiore ai già alti standard händeliani; una capacità unica di determinare attimi di incanto in cui la bellezza trascende situazioni, azioni e personaggi; una varietà di soluzioni stilistiche, timbriche e formali sconosciuta ai contemporanei.

Mettere poi in scena al giorno d’oggi opere nate in un particolare contesto storico culturale, come è l’opera di Händel, crea spesso difficoltà e spesso si tende a cadere nel banale contemporaneo e nel banale avveniristico, togliendo tutto ciò che di magico e fantastico racchiude in sé l’opera barocca.
Nel nostro caso l’allestimento è stato affidato alla regia di Alessio Pizzech. L’idea di fondo è che l’Egitto della conquista romana può essere messo in parallelo con l’Egitto (o meglio un’Africa) della conquista coloniale di fine Ottocento. Perciò Giulio Cesare e i romani sono vestiti con abiti coloniali, tra l’altro molto belli, realizzati da Cristina Aceti; mentre gli egiziani rivestono abiti di quasi tutte le culture africane, come Tolomeo e Achilla che sono berberi. L’effetto è dinamico e le luci di Marco Cazzola rendono un Egitto che è più Africa nera ma che diletta la vista. L’opera si apre con la bella ouverture a scena aperta: il lavorio dei militari in scena disturba talmente che è praticamente impossibile seguire la breve ma intensa musica che apre il dramma.
Il primo atto vede una scena molto bella: un enorme geroglifico tratto da un tempio egizio, ricorda quelli di Abu Simbel, che ci immerge nel luogo dove avviene la vicenda; il primo atto procede in modo sobrio essenziale, ma nello stesso tempo il regista ha saputo dare quel movimento necessario per evitare la pesantezza di alcuni momenti critici. Molto significativa la scena in cui il cranio di Pompeo, in un reliquiario barocco, viene portato in scena e vi rimane, come un personaggio vivo dell’opera. Il secondo atto si apre con un’enorme coppa in scena, che potrebbe essere il trono della Virtù e delle Muse, in cui i personaggi agiscono, il fondo della scena è utilizzato da alcune proiezioni molto intonate che ricordano il cielo africano. Il tutto sempre in un filone molto omogeneo, brillante, mai stancante. L’ultimo atto perde la magia dei primi due ed è parso poco comprensibile. Certamente la quasi assenza di figuranti è un problema nel realizzare la battaglia tra Cesare e Tolomeo, ma la caduta di libri dal cielo che dovrebbero ricordare la biblioteca di Sarajevo bombardata (e Cleopatra in carrozzella con tanto di flebo) è parsa poco in linea con gli atti precedenti, visivamente affascinanti e coinvolgente in quanto romanticamente coloniali.

Buono il cast, su cui primeggiano indubbiamente le due protagoniste. Il contralto Sonia Prina nel ruolo en travesti del titolo ha bella voce, buon fraseggio, ottima tecnica e recitazione drammatica anche se a volte troppo mascolinamente accentuata. Il soprano Maria Grazia Schiavo è Cleopatra, ottima agilità, bel fraseggio, acuti puliti e grande espressività vocale. Buona prestazione per il controtenore Filippo Mineccia in Tolomeo, voce scura e morbida che deve però maturare e omogeneizzarsi; ottima la sua presenza scenica. Bravo Riccardo Novaro, voce statuaria per Achilla. Brava anche Josè Maria Lo Monaco in Cornelia, buona esecuzione vocale e ottima recitazione drammatica. Discreto il giovane sopranista Paolo Lopez, dopo un inizio meno preciso ha notevolmente migliorato nel corso della recita. Voce piena per il basso Andrea Mastroni in Curio; adeguato il sopranista Floriano D’Auria in Nireno.

Ottima esecuzione, come precedentemente ricordato, di Ottavio Dantone e della sua Accademia Bizantina: lo smalto, la professionalità, l’amore e l’energia che riesce a rendere nella musica barocca è eccellente e anche in questo Giulio Cesare si è ampiamente rivelato.

Teatro pieno, per un’opera non facile, pubblico inizialmente freddino ma che poi via via si è lasciato coinvolgere dalla bellezza delle arie di Händel. Applauditissimi i protagonisti anche a scena aperta. Al termine tanti applausi per i cantanti, ovazione per Dantone e l’Accademia Bizantina e qualche contestazione per il regista.

Visto il
al Alighieri di Ravenna (RA)