L’incapacità politica è alla base delle guerre che sfociano nelle catastrofi umanitarie. Questo in estrema sintesi è il messaggio racchiuso nel nuovo allestimento di Giulio Cesare, di William Shakespeare, diretto da Àlex Rigola, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto, che ha debuttato all’Estate Teatrale Veronese.
Lo spettacolo inizia con due immagini di forte impatto: la Situation Room della Casa Bianca nella quale Barack Obama, Hillary Clinton, Joe Biden ed altri stanno seguendo in diretta la cattura e l’uccisone di Osama Bin Laden, seguita dalla fotografia del piccolo Aylan riverso sulla spiaggia di Bodrum dopo l’ennesima tragedia dell’emigrazione. Simbolo quest’ultimo che torna nel finale quando la sagoma gigantesca del bambino riemerge dal mucchio di ossa lasciate sul campo al termine della battaglia di Filippi.
L’idea viene sviluppata con coerenza nel corso di quello che è il testo più politico dell’intero corpus shakespeariano, dominato dal rapporto tra popolo e tirannide (reale o presunta), nel quale la violenza viene ammantata dalla retorica, quella retorica che serve per arringare alle folle e piegarle all’ipocrisia (non a caso il primo atto inizia con la proiezione sul fondale della parola WORDS che nel secondo atto si trasforma in WAR).
Da quando Romolo e Remo sono stati allevati da una lupa, questo istinto selvaggio si è trasmesso nelle generazioni successive, sino ai congiurati delle Idi di marzo, che nel corso dello spettacolo si presentano travestiti da lupi, anche quando, come nel caso di Bruto, agiscono in buona fede e spinti da ideali di giustizia e uguaglianza.
Il regista cerca di imprimere allo spettacolo un ritmo dinamico, ricorrendo a robusti tagli al testo, ad un uso massiccio di videoproiezioni e ad una colonna sonora hard rock; espedienti che però non sempre riescono a far decollare le scene più statiche, in cui è la parola a fare la differenza. Questo probabilmente è dovuto ad un livello degli interpreti non sempre omogeneo.
L’ Antonio di Michele Riondino, dopo un inizio non completamente a fuoco, si è distinto per intensità e convinzione nel celebre monologo che ha chiuso la prima parte, mentre tra le interpretazioni più efficaci si sono distinte l’ottima Maria Grazia Mandruzzato, nei panni maschili di Cesare, l’intensa Porzia di Silvia Costa e il determinato Crasso di Michele Maccagno.
Meno convincente il Bruto di Stefano Scandaletti, che raramente è sembrato determinato ed incisivo, mentre il resto del cast si è dimostrato nel complesso funzionale.
Buona la risposta del pubblico del Teatro Romano che ha applaudito con convinzione l’intero cast.