Lirica
GIULIO CESARE

Museo Opera Barocca?

Museo Opera Barocca?

Al Regio di Torino l’opera barocca fa il suo ingresso in repertorio con il Giulio Cesare di Haendel nell’allestimento ideato da Laurent Pelly per l’Opéra Garnier. Il regista ambienta la vicenda nei magazzini di un museo egizio (le scene sono di Chantal Thomas, abituale collaboratrice del regista), probabilmente quello del Cairo come l’abbigliamento degli addetti lascerebbe supporre (ma se ci piace, potrebbe essere quello di Torino), dove i personaggi dell’opera prendono vita fra scaffalature polverose e interagiscono coi dipendenti del museo impegnati nelle loro abituali mansioni. Il concetto non è nuovo e ha dato origine a diverse variazioni sul tema: dal film con Ben Stiller, all’Armide di Lully con regia di Carsen ambientata a Versailles, fino al recente Trovatore  di Salisburgo (entrambi recensiti dal sito); l’idea è efficace in quanto, sfruttando un duplice piano narrativo, quello del libretto e quello della realtà/immaginazione, stimola e mantiene viva l’attenzione dello spettatore. Pelly ha un approccio ironico e leggero, di superficie forse, ma appassiona il pubblico moderno a un’opera barocca di oltre quattro ore, rendendo godibili pure gli interminabili “da capo” che si prestano a situazioni sceniche  naturali e diversificate: è un teatro dei nostri tempi da consumare in fretta che richiede ritmo, velocità, intrattenimento. Il decorativismo statico non ha ormai fatto il suo tempo?

Nel coro iniziale  busti di marmo disposti sulle teche aprono le bocche tipo Muppets show (gag già vista, di cui avremmo fatto a meno)  ma poi il meccanismo prende il giusto avvio nelle interazioni (consapevoli e non) fra protagonisti e maestranze: gli operai movimentano sui muletti con la stessa nonchalance reperti e personaggi, trascinano sulla scena un’enorme statua egizia rovesciata sulla quale fa la sua entrata a cavalcioni  Cleopatra, così provocante che le maestranze si gettano al suo inseguimento. La pantomima del secondo atto si svolge nel deposito di quadri di genere in un ‘700 di dichiarata finzione: Cleopatra entra (letteralmente) in un quadro bucolico vestita da pastorella, la tela scivola verso il fondo per essere riappesa al muro e rimane la cornice vuota che inquadra la regina che si allontana muovendo le braccia vezzosa. Come non pensare alla regina Maria Antonietta che si travestiva da pastorella alla vigilia della rivoluzione francese? Pelly ci autorizza a pensarlo, con una stoccata alle leziosità settecentesche che non risparmia i quadri di genere che, spostati a vista, creano un labirinto in cui si perde Nireno, mentre Cesare intona sull’amore. Talvolta gli addetti escono dal deposito per la pausa lasciando soli i personaggi a continuare le loro storie, ma nel finale, illuminati dalle torce dei guardiani e terminato il concertato nel buio, torneranno a essere antichità inanimate.

La regia richiede ai cantanti grandi doti sceniche e li “costringe” a cantare arie di bravura in situazioni limite (salire di corsa le scale, arrampicarsi su statue o moschee in miniatura), non è questo una dimostrazione aggiornata di virtuosismo? Inoltre i cantanti giocano costantemente sul doppio registro (comico/serio) e i personaggi ci appaiono ben più moderni e interessanti.
Sonia Prina è risultata credibile nel ruolo en travesti di Cesare per il giusto piglio e la corretta postura ma anche per aver assecondato con ironia  le intenzioni registiche che mostrano dell’imperatore romano le umane debolezze: Cesare è l’Imperatore tutto di un pezzo ma con un debole per le donne procaci, l’uomo di potere tipico insomma. Qualche disomogeneità si avverte ma la prova è di tutto rispetto: le agilità sono snocciolate con l’insolenza che si addice al capo e si apprezza la capacità di sfumare dal canto eroico a quello patetico, dove peraltro eccelle.
Jessica Pratt ha voce limpida e seducente e, considerato il debutto nel repertorio haendeliano, la prova è notevole anche sul piano stilistico e le perdoniamo qualche acuto di troppo: ci ha favorevolmente impressionato per disinvoltura scenica (ricordiamo che il ruolo era stato cucito addosso alla verve di Natalie Dessay) e capacità di cantare in modo impeccabile controllando l’emissione nonostante i movimenti i richiesti dalla regia. Cornelia è una figura tragica di grande rigore morale, caratteristiche che Sara Mingardo ha ben tradotto con un canto stilisticamente inappuntabile ricco di pathos autenticamente dolente. Da seguire Maite Beaumont, che ha interpretato con stile e musicalità la parte di Sesto risolvendo con disinvoltura tutte le agilità previste. Diverte il Tolomeo stizzoso e vanesio di Jud Perry,  la voce da controtenore non è particolarmente estesa ma risulta ben controllata. Riccardo Angelo Strano è il confidente Nireno che, se pur un po’ sopra le righe per le numerose gags e mossette previste dalla produzione, dona al personaggio insolito rilievo. Concludono adeguatamente il cast l’Achilla ben differenziato di Guido Loconsolo e il Curio di Antonio Abete.

Ci è piaciuta la direzione di Alessandro de Marchi, specialista del barocco che è riuscito a infondere in un’orchestra attiva in altro repertorio (potenziata per l’occasione dall’inserimento di strumenti barocchi quali liuto, tiorba, chitarra) una chiarezza di disegno e un’omogeneità esemplare. La sua lettura è tutt’altro che meccanica e asettica: respira con i personaggi di cui restituisce gli affetti e diffonde un senso di rotondità e calore.

Visto il
al Regio di Torino (TO)