La bellezza può essere mangiata? Per Aleksandr Sokurov ogni forma d’arte va ingerita e metabolizzata in un rito vitale e collettivo, purché la brama non diventi personale possesso, pena fare la fine di un topo preso in trappola e triturato dal meccanismo. L’arte, la cultura, la bellezza sono rappresentate da una forma di formaggio posta dentro la teca votiva ai piedi di una divinità pagana e i fedeli, come topi, ne rosicchiano avidamente piccoli bocconi.
«Non è l’uomo che conquista lo spazio, ma lo spazio che conquista l’uomo». La via di fuga prospettica della scena è culminata contro uno schermo/cielo e ad assistere alla proiezione si è radunata una folla in abiti della metà del Novecento, militari in divisa e signore con vezzosi cappellini a tamburello, mischiatasi a jumpers in bermuda. Sulla sinistra, il vociare dei frequentatori di un bar, speculare rispetto all’altare profano posto sulla destra. Una bailamme di epoche storiche, onirico, visionario, metaforico quanto reale; una Babele di inflessioni dialettali e di grida zittite dal silenzio. Voci dicotomiche i cui pieni e vuoti sonori hanno riverberato gli uni negli altri, nella piazza popolata di speranze, desideri, dubbi divoratori e abitata dal Tempo, fattosi parola laica dell’arte.
Una polla d’acqua ha trasmesso il film, capovolto rispetto alla visuale del pubblico e indirizzato verso lo schermo/cielo, in un dialogo di celluloide. «Lo spettatore è il Tempo» che ha assistito al percorso onnivoro e bulimico di transizione da una forma umana primitiva a una civilizzata e artistica, risultate conviventi. Tullio e Publio (Max Malatesta e Michelangelo Dalisi), il romano e il barbaro, si sono sovrapposti nell’unica essenza di un Narciso specchiatosi nella tecnologica superficie liquida per poi abbeverarsi avidamente della propria immagine riflessa. Entrambi similmente abbigliati ed entrambi presentanti due volti, come Giano bifronte dio degli inizi materiali e immateriali, essi percepivano l’esteriorità come l’interiorità e guardavano simultaneamente in avanti verso il futuro oppure indietro verso il passato. Loro potevano vedere il Tempo.
Il regista cinematografico Sokurov si è confrontato con il mezzo teatrale e ha dato vita a una riflessione interiore benché esteriorizzata, ironica ma anche sofferente, interloquendo e pascendosi della zona più profonda della propria essenza artistica. Gli spunti, anch’essi babelici, hanno composto un continuum di suadente equilibrio armonico, mentre i dialoghi hanno tratto melodiosità dalle citazioni all’ispiratore del work-in-progress, il poeta premio Nobel Iosif Brodskij, materializzatosi (Elia Schilton) per sussurrare un ultimo toccante monologo.
Il rumore assordante del passaggio della metropolitana, che nella pellicola ha cagionato lo sbriciolamento di antichi affreschi e reperti, ha ricordato il lato effimero e transeunte dell’arte, da Sokurov fissato nell’attimo della sua caducità. Lo spostamento d’aria generato dal treno ha sfogliato i rosei petali del glicine che, proiettato, si abbarbicava alla scena in un’atmosfera di romantico decadentismo. Il poeta ha reiterato l’interrogativo: «È giovane? È giovane?». «Sì», è stata l’accettazione di un ragazzo accucciato nell’ombra, al quale in un abbraccio è stato passato il testimone della continuità, del Tempo, perché l’arte, generata dall’uomo ma più grande del suo creatore, potesse andare avanti: Go.Go.Go.