Tiziano Turci porta in scena a Roma una piéce, un canovaccio di teatro-jazz alla commedia dell’arte sulla perdente epopea degli immigrati clandestini. Sul palco è come un grillo. Punta tutto sulla parola, sulle espressioni e sullo scambio emozionale con il pubblico. Il suo è uno stile da raccontatore/affabulatore. Ricorda un po’ Marco Paolini e un po’ Benigni e per i ritmi vorticosi di parola che raggiunge, a tratti anche Celestini. Ma in questa serie di illustri precedenti la sua verace “emilianità” e la foga del giovane contestatore lo distinguono nella forma, mentre nella sostanza si concentra sul tragico gap tra un mondo di reietti e diseredati e quello di chi cerca di tenerli fuori dal ritorno alla vita.
Tratta argomenti drammatici, nascosti troppo spesso tra le pieghe di quel cuscino democratico di cui parla. Offre al pubblico storie nascoste viste con gli occhi di un naufrago condannato a non arrivare mai a terra. Accarezza sarcastico tematiche sulla politica dei benpensanti contro i reietti che vengono da un altro mondo, attacca senza filtro certi ministri e si lancia su quel “cuscinetto democratico” che se non informato tiene ben separati “i tanti laggiù che stanno male dai pochi lassù che stanno bene”.
Dalle note sincopate del suo piano racconta ironicamente infervorato i non detti mediatici sullo strapotere di Gheddafi, citando con coraggio il taciuto intervento alla Sapienza di due anni fa. Poi nel suo viaggio dall’Africa centrale alla Spagna, al fianco di un manipolo di uomini in fuga, è accompagnato anche da un banjo e un contrabbasso e dal canto di Rossella Teramano. Il suo spettacolo è minimalista, ma la presenza scenica di un giovane attore energico e a suo modo interessante, e la forza nell’interpretazione del canovaccio ci sono tutte per un teatro-off che irriverente alza il velo su argomenti e situazioni messe da parte con l’artefazione televisiva ad hoc del pietismo o dell’invisibile indifferenza.