Lirica
GOTTERDAMMERUNG

QUANDO IL TEMPO FINISCE

QUANDO IL TEMPO FINISCE

Arriva a compimento il Ring di Cassiers iniziato nel maggio 2010 e in attesa che venga proposto in giugno, per due cicli consecutivi (dal 17 al 22 e dal 24 al 29),  nella sua integralità: “pare un esercizio atletico ma non lo è – ha dichiarato Barenboim –, perché è stato concepito come un'unità e non come quattro opere, una dimensione totale, un viaggio di sedici ore da fare in un periodo breve per avere quell'effetto di transizione senza cesure che costituisce la base del mondo wagneriano”.
Necessariamente la terza giornata risente delle precedenti sia nel linguaggio scenotecnico che nelle scelte registiche. In un certo senso è come se Cassiers avesse agito per sottrazione, risultando il Crepuscolo rarefatto rispetto alle opere precedenti sia nella densità dei simboli che nella asciuttezza del gesto e del movimento: il coro è per lo più immobile (entra ed esce su una pedana semovente), i protagonisti ieratici come nella statuaria classica (la Valchiria totemica come un monumento della regina Vittoria). Ma non si ha il senso di immobilità o di fissità, tutt'altro: le dinamiche del plot si dipanano con chiarezza, coadiuvate dall'apparato visivo.

La scena di Guy Cassiers ed Enrico Bagnoli, prevalentemente vuota, presenta una gradinata in tre sezioni orizzontali, una enorme teca di plexiglas trasparente che contiene corpi decapitati, a pezzi e in necrosi immersi in un liquido come formaldeide e illuminati da bagliori madreperlacei o piuttosto alabastrini: è l'emblematica reggia dei Ghibicunghi con rimandi borghesi tradizionali come i bicchieri di cristallo per il vino. Una specie di saracinesca a tratti isola e separa dal mondo circostante ma, come nelle tende alla veneziana, l'aprirsi degli elementi orizzontali consente di far arrivare riverberi e di intravedere l'oltre.
I costumi di Tim Van Steenbergen mescolano dettagli ottocenteschi contemporanei al compositore (cappelli a cilindro, corsetti che vagamente ricordano i clan scozzesi, marsine) ad altri lontani nelle ere e coevi alla vicenda (pellicce, brandelli di stoffe) ma tutti riletti con sguardo contemporaneo nel trattamento cromatico e materico delle stoffe. I video di Arjen Klerkx e Kurt D'Haeseleer evocano polveri, acque, magma, lava incandescente, cenere, fumo, insetti, volti dilaniati da urla, esseri ectoplasmatici e cavalli quando non ombre e chiazze di colore che si raggrumano o in via di scomparire oppure figure deformi come nei dipinti di Francis Bacon. Le luci di Enrico Bagnoli non sono solo funzionali a illuminare la scena ma seguono e amplificano la vicenda, come il rosso per la morte di Siegfried. Le coreografie di Sidi Larbi Cherkaoui, eseguite dai danzatori della sua compagnia di balletto Eastman di Anversa, sono attente a tradurre in gesti quello che la luce e i video fanno nelle loro specificità, riprendendo i moti flessuosi delle immagini e gli effetti di luce/ombra. Particolarmente riuscito, nel duetto Siegfried-Brünnhilde, l'effetto del mantello ingigantito dai ballerini che trasforma l'uomo in un mostro di dimensioni colossali e poi prende vita autonoma per ghermire la donna e rubarle l'anello.

La regia di Cassiers, grazie a queste componenti, affronta grandi questioni contemporanee: la fine della storia e della politica come già intese sino a oggi, la gestione del flusso ininterrotto di immagini e di informazioni (spesso non indispensabili), il ruolo del linguaggio, l'antitesi tra realtà e suo riflesso nel virtuale e nella rete, la confusione e la violenza che portano alla ricerca della sicurezza nella spiritualità quando il tempo degli dei e degli eroi finisce e all'uomo non resta nulla se non le rovine di un incendio, dove una folla di uomini guarda attonita in silenzio il pubblico con l'interrogativo se un nuovo inizio sia ancora possibile.
Lo spettacolo scorre via comprensibile e accattivante pur nella lunga durata, senza alcun cedimento. Forse ingenuo tenersi la pancia con le mani dopo aver bevuto il filtro (era già abbastanza efficace il tingersi di rosso dell'acqua che si intravede oltre la grata riverberando bagliori di fuoco), come anche il salutarsi all'americana, con grandi pacche sulle spalle, dopo aver siglato il patto di sangue: ma anche questo serve ad avvicinare immediatamente il pubblico a fatti concreti prodromici di altro.
Il finale è con il grande quadro-bassorilievo di Jef Lambeaux (Il tempio delle umane passioni) che ricorda la discesa del Gange sulla terra a Mamallapuram: un'umanità aggrovigliata sotto la morte, nessuna distinzione tra uomini e dei nella natura e nel destino. Già tutto era diventato buio e grigio quando il filo rosso delle Norne si era spezzato: il resto è solo conseguenza necessaria. Forse un nuovo inizio è ancora possibile: il bassorilievo che si frappone tra cantanti e pubblico pare un avvertimento a cambiare le nostre vite per evitare quello che si è appena visto. Solo così il sacrificio estremo di Brünnhilde non sarà stato vano.

La direzione, affidata a Karl-Heinz Steffens per la convalescenza di Barenboim, ha convinto senza riserve, sorprendendo per compattezza, precisione, termometro emozionale, accompagnato da un'orchestra perfetta. Il Maestro, che nelle recite di giugno lascerà il podio a Barenboim, ha mantenuto salda la tensione drammatica, un lungo, ininterrotto arco narrativo che mantiene lucidità e trasparenza nel mentre accumula i motivi conduttori. I colori orchestrali sono perfettamente a fuoco, il volume notevole ma mai prevaricante il canto fino agli struggenti pianissimi del finale che esprimono il dolore dell'anima di  Brünnhilde.

Lance Ryan affronta con coraggio la temibile partitura ma la resa di Siegfried è piuttosto piatta ed esteriore, soprattutto a causa del vibrato nella voce e di acuti a momenti non perfettamente a fuoco con l'intonazione al limite. La Brünnhilde di Iréne Theorin è fiera ma si rivela innamorata e proprio per questo umana e mortale, ha voce salda con acuti potenti e imperiosi, il medio strepitoso compensa una minore corposità del grave e convince maggiormente nelle emissioni forti che nei momenti di ripiego, reggendo la parte fino al lungo finale. Mikhail Petrenko ha bella voce, però non abbastanza scura per rendere Hagen, dunque impostato in modo intelligente (e con successo) sul registro della perfidia razionale piuttosto che della diabolicità istintiva e primordiale. Di grande classe la Waltraute di Waltraud Meier (impegnata anche come Zweite Norn): nel suo intervento nel primo atto, uno dei momenti più alti della messa in scena, rende con grande intensità la supplica alla Valchiria che si particolarmente apprezzata per la morbidezza e la fluidità. Con lei, perfette anche le altre due Norne, Margarita Nekrasova e Anna Samuil, impegnate nel prologo a dipanare un filo rosso luminoso arroccate in cima alla rupe. La Samuil canta anche come Gutrune, della quale dà un'interpretazione acerba e maliziosa, più ingenua che volitiva. Perfette le tre Figlie del Reno, Aga Mitoraj (Woglinde), Maria Gortsevskaya (Wellgunde) e Anna Lapkovskaja (Flosshilde), le cui voci nella penombra si mescolano allo svolazzare degli abiti con fare preraffaellita. Bravi Johannes Martin Kränzle (un torbido Alberich) e Gerd Grochowski (un Gunther quasi damerino borghese). Ottima la prova del coro preparato da Bruno Casoni.

Teatro non gremito con qualche defezione dopo il secondo intervallo per la durata titanica dell'opera (oltre sei ore). Un pubblico attento ha applaudito tutti (in particolare il direttore) con convinzione ad ogni chiusa di sipario e nel finale. Portentoso, per saggi e immagini, il programma di sala: in particolare è illuminante il contributo di Erwin Jans “The final countdown”.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)