Il grand guignol è un genere teatrale in voga in Francia nell'ottocento dove le storie truci del ghetto sociale assurgevano ad attrazione popolare, un po' sceneggiata (ma senza canto) e un po' storie di mala e di coltello. Ma resta incomprensibile cosa c'entri con lo spettacolo che abbiamo visto in scena ieri sera al teatro Pirandello di Agrigento, a parte il turpiloquio e un finale… guignolesco (?) che non sveliamo per discrezione nei confronti di chi vorrà vederlo.
Vero che quel 'all'italiana' del titolo sembra preavvisare, ma il testo di Vittorio Franceschi non ha nulla in comune con il drammone popolare di altri secoli. La commedia portata in scena dal regista Alessandro D'Alatri gioca tutto su standardizzati problemi personali, specchio della società contemporanea, e su uniformate critiche all'italietta di oggi.
Grand guignol all'italiana è uno spunto di idea per portare a teatro un'ironia su nazione e società, un'ironia che poteva trasformarsi in una satira accattivante e condivisa. Ma in scena si è visto troppo poco: gli sforzi, e i disaccordi fra i protagonisti, per un nuovo inno nazionale; la presunzione degli imprenditori, in questo caso un salumiere; l'ignoranza di chi dovrebbe occuparsi di cultura; l'insoddisfazione coniugale dell'inevitabile fedifrega; la diversità di un giovane gay; la depressione di una colf infine risolutrice dei problemi. Tutto è rimasto in embrione, con sviluppi troppo frettolosi e superficiali: la satira non graffia, la violenza non indigna, il tradimento non sdegna, l'ignoranza non meraviglia. E l'angelo risolutore, con la maschera di Batman, taglia i fili della vita con troppa risoluzione, lanciando l'ultima frecciatina al sistema giudiziario.
Tutto è rimasto in embrione, non sviluppato dall'autore e nemmeno dal regista. Non abbiamo visto nessun grand guignol e nemmeno uno spettacolo di sapiente satira, solo uno spettacolo di costume che si salva, forse, solo per le buone interpretazioni di Lunetta Savino & co.
Foto di scena di Diego Romeo